Mario Giannini: fotografo per folgorazione

giovedì 30 aprile 2020


Continua il nostro viaggio all’interno del mondo spettacolo, in particolare del teatro. Questa settimana andiamo a conoscere più da vicino colui che scatta fotografie prima ancora che con la macchina fotografica, con la mente. Sì, lui prima esplora, poi cattura l’immagine con gli occhi e poi, clik, immortala per sempre l’attimo. Il suo nome è Mario Giannini. Come ormai di consuetudine, raggiungo il mio interlocutore al telefono, scopro che abitiamo vicini, in un altro momento ci saremmo potuti incontrare e fare questa intervista davanti a un caffè. Essendo meridionali entrambi, sicuramente sarebbe finita così. Giannini è un fiume in piena: mi racconta della sua terra, le sue origini, i nonni, i genitori… faccio quasi fatica a stargli dietro, poi metto un punto e ricominciamo tutto da capo. Mario è nato in provincia di Matera, precisamente a Salamara, un piccolo centro di poco più di duemila persone. Quinto di sei figli, tre maschi e tre femmine. Il papà, costretto ad emigrare in Germania, va a lavorare per una compagnia telefonica per tirare avanti la numerosissima famiglia. Va via da settembre ad aprile, e nei mesi restanti fa il bracciante agricolo assieme a mamma Rosa. Poi Mario mi parla del nipote Antonio Giannini, il quale ha scritto un libro sulla vita del nonno Vito, del suo coinvolgimento da combattente e prigioniero nell'ultima guerra mondiale.

Dopo il servizio militare Mario lascia la sua terra ed emigra a Milano, facendo una trafila nota a molti. Per mantenersi fa il cameriere. Le tappe, Milano e poi Roma, sono una consuetudine per noi che veniamo dal Sud, è un film già visto. Così si stabilisce nella Capitale, affascinato da tutto quello che gira attorno al mondo dell’arte. Il museo a cielo aperto lo accoglie come ha sempre accolto tutti quelli che vi hanno messo piede. Giannini, che non trascura nessuna forma d’arte, frequenta la Scuola popolare di musica di Testaccio, per imparare a suonare la tromba, e complici le note incontra Anna Maria, giornalista esperta di botanica, con la quale condivide la vita tuttora. Il ménage dei coniugi Giannini si divide tra musica, fotografia, fitoalimurgia, erboristeria e tango. Soprattutto questa ultima disciplina ha avvicinato Giannini al teatro, spingendolo qualche volta a fare anche il direttore delle luci. Fotografo ufficiale per circa 10 anni all’Isola del Cinema a Roma, e per Basilicata Cinema.  Collabora con le maggiori testate nazionali tra cui: La Repubblica, Corriere della Sera, Il Messaggero, Spazio Italia, Atmosphere, Giardini, Viver sani e belli, Vie del Gusto, Menù magazine ed altri.  Il suo lavoro spazia dal campo della moda, a cinema, teatro, eventi. Numerosi gli spettacoli teatrali e i riconoscimenti, tra cui, per citarne uno: “Amore per la fotografia” presso L’Università La Sapienza di Roma. Col metacarpo dolorante per aver dovuto scrivere tutte queste notizie mentre mi parlava a mitraglietta, riesco a fargli la prima domanda:

A chi devi la tua passione per la fotografia?

Devo tutto ad un mio cugino più grande di me, che oltre ad essere il mio padrino di battesimo, si chiamava Mario, è per lui che porto questo nome, avendo già esaurito i nomi dei 4 nonni. Lui viveva a Milano ed ogni anno veniva a passare le ferie a Salandra. Avevo circa 13 anni quando mi portò come regalo una macchinetta fotografica di plastica Kodak. Per me fu una grande emozione, ne rimasi folgorato. Avevo a disposizione 2 rullini da 12 foto l’uno. Cominciai subito con grande entusiasmo a scattare le mie prime foto: a mio nonno, a mia madre, ai miei amici, a tutti quelli che trovavo sulla mia strada. Solo che al mio paese non c’era nessuno che sviluppava le pellicole fotografiche. C’era soltanto un tabaccaio che portava i rullini a Matera per essere sviluppati. Poi l’attesa di vedere le foto stampate. Ricordo che andavo tutte le mattine a chiedere se erano pronte. Ma dovettero trascorrere ben 15 giorni per poterle vedere. Fu un’immensa gioia.

Dove ti sarebbe piaciuto vivere, se non ti fossi fermato a Roma e perché?

Probabilmente in Umbria, perché questa regione è ricchissima di verde.  Il paesaggio è così bello e unico con i suoi colori che sembrano un’idealizzazione artistica. Si respira aria pulita ed anche una grande spiritualità. L’Umbria infatti è terra di Santi tra cui il più importante: San Francesco d’Assisi patrono d’Italia. Ho frequentato molto l’Umbria perché sono andato spesso ad “Umbria Jazz”, ho fatto anche vari servizi editoriali e di moda. 

Come è avvenuto il tuo approccio con il teatro?

Amo il teatro perché il contatto con il pubblico mi emoziona molto da sempre. Sin da piccolo, a 12 anni suonavo già la tromba nella banda del mio paese. Il rapporto diretto con la gente nelle piazze mi dava una grande carica di energia. Il mio approccio con il teatro a livello fotografico è avvenuto per la prima volta a Todi (PG). Ero lì per un servizio fotografico al Todi Tango Festival e per l’occasione c’era anche uno spettacolo al Teatro Comunale “Napoli Buenos Aires andata e ritorno” di F.Panullo, con F.Scialdone, una emozionante rappresentazione di una storia di emigranti italiani, che partivano per l’Argentina. Avevo capito che il teatro ogni volta è un’interpretazione unica degli attori, non ripetibile.  Mai allo stesso modo, così come la fotografia che ferma l’attimo: un’emozione che si sta vivendo, mai uguale alle altre. E queste sensazioni, similitudine e connubio, mi hanno fatto molto appassionare al teatro, per cui poi ho continuato a immortalare spettacoli teatrali ed a trasmettere l’emozione del teatro attraverso la fotografia.

Che cosa è la fotografia per te?

La fotografia come la musica è uno dei linguaggi più universali al mondo. L’importante è cercare di ottenere immagini significative che realmente raccontino qualcosa: una storia, un evento, un luogo, uno stato d’animo. Per me la fotografia dovrebbe essere insegnata nella scuola dell’obbligo come le altre materie, perché ti fa non solo guardare il mondo, ma vederlo bello e soprattutto sognarlo. Vorrei esprimere un concetto importante: per me in fotografia non esiste il talento. Bravo fotografo non si nasce ma si diventa, con il lavoro unito alla propria sensibilità, e soprattutto con il vissuto, la curiosità verso la vita!

 Quanto sono importanti le radici ed il proprio bagaglio nella vita?

Ritengo che le radici familiari siano per tutti noi molto importanti.  Provengo da una famiglia solida e numerosa che mi ha fatto capire il senso del sacrificio e della solidarietà. I miei genitori quasi centenari sono vivi entrambi. Le mie radici semplici, credo abbiano influenzato fortemente la mia sensibilità e la scala di valori nella vita.

Hai formato un gruppo Facebook per appassionati della fotografia, quali progetti hai in cantiere per fine pandemia.

Si, da quando è iniziata la quarantena, per alleviare lo stress della triste situazione che stiamo vivendo, ho creato il gruppo “Fotografia Impariamo a Vedere” su Facebook. Hanno aderito quasi mille membri, ai quali ogni giorno dò un tema da svolgere. Ho chiesto di postare foto del momento che ciascuno sta vivendo, ma anche foto scattate precedentemente. Un modo per condividere emozioni che ci possono aiutare a vedere oltre: la luce oltre la paura. E quando tutto sarà finito, speriamo presto, vorrei realizzare un fotolibro con le immagini più belle e significative scattate dai membri. E poi vorrei proseguire a fare shooting in sala posa, eventi di ogni genere e organizzare un corso di fotografia.


di Giò Di Sarno