Alessandro Chiti, lo scenografo gentile

venerdì 24 aprile 2020


Cosa sarebbe uno spettacolo senza i suoi tanti componenti, senza quel particolare movimento, quella scena che si apre e ti catapulta in un altro ambiente, in un periodo, in un altro tempo. Favorendo l’immaginazione e l’immedesimazione dello spettatore attraverso un dettaglio che mai è messo a caso in quel determinato punto: questa è la scenografia. E oggi vi porto nel mondo di chi la realizza. L’idea che si ha quando si incontra lo scenografo teatrale Alessandro Chiti è quella di una persona risolta, una persona che fa della gentilezza e della discrezione il suo biglietto da visita. Figlio unico dall’infanzia serena grazie a due genitori amorevoli, entrambi a stretto contatto con i fiori: il papà li coltivava e la mamma li vendeva. Nato a Grosseto e vissuto a Follonica dove sin da bambino ha sviluppato la curiosità verso il teatro che vedeva saltuariamente nella (allora) piccola città di provincia. Uno dei giochi che amava fare da piccolo era il teatro dei burattini, solo che lui il teatro lo costruiva di sana pianta, dai personaggi alle scenografie, dalla messa in scena al pubblico coinvolgendo vicini di casa e parenti, fino a sognare di trasformare questa sua grande passione nella sua professione da adulto.

E così, giocando giocando e attraversando un’adolescenza introversa, il suo sogno, grazie anche al supporto e all’incoraggiamento dei genitori, diventa realtà. L’attività di scenografo arriva in maniera fortuita, con la conoscenza occasionale di alcune persone che condividevano le sue stesse passioni. Insieme decidono di creare una piccola Compagnia di teatro organizzando spettacoli per gli studenti, non in classe, ma nei piccoli teatri dove la magia, anche se con pochi mezzi, poteva compiersi. Erano cinema-teatro di provincia, con tutto quello che comporta una piccola realtà. Qualche volta costretti a mangiare solo un panino e passare la notte in teatro per montare le scene in tempo per le matinée, ma quando si è giovani la passione supera ogni ostacolo.

Tra gli studi di architettura e il teatro, Chiti sperimenta, da autodidatta, materiali, spazi, piccole costruzioni, fino alla realizzazione di un sogno fatto di teatro vero. Nel frattempo il giovane studente si traferisce a Roma dove opera dai piccoli teatri off ai grandi teatri nazionali. Tutto un crescendo, fatto di studio, lavoro, impegno tecnica e soddisfazioni. Decisivo fu l’incontro con Lucio Ardenzi, all’epoca considerato il più ambito produttore privato italiano, che riconobbe in lui talento e capacità tali da farlo diventare il suo scenografo di fiducia. Nella sua carriera trentennale ha collaborato con tantissimi nomi importanti dello spettacolo, registi e attori tra cui Proietti, Salemme, Albertazzi, Gassman, Salvo, Calenda, Marini, Carniti, Colombi, Anfuso, Venturiello, oltre alle innumerevoli Compagnie, Teatri Stabili e Festival (Spoleto, Siracusa, Versiliana, Borgio Verezzi, Teatro romano di Verona). Chiti spazia tra testi moderni, classici, musical e lirica. Le ultime produzioni di livello nazionale relative a testi di drammaturgia contemporanea sono: “La pazza della porta accanto” di Giuseppe Fava, “Stabat mater” di Antonio Tarantino, “Non mi hai più detto ti amo” di Gabriele Pignotta, ”Un momento difficile” di Furio Bordon, “La Classe” di V. Manna e molti altri. Per il classico: “La Tempesta”, “Romeo e Giulietta”, “Giulio Cesare”, “La Locandiera”, tra i principali. Per il musical: “Rapunzel”, “La Regina di ghiaccio”, “Aladin il musical geniale”, “Pinocchio Reloaded”. Per la lirica, con il “Werther”, “La Boheme”, “Don Pasquale” “La Vedova allegra” ha ottenuto risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Molti i consensi e riconoscimenti e fra questi, l’Oscar italiano del Musical per l’anno 2015. Oltre al teatro che l’impegna a 360 gradi, Chiti è un appassionato di cucina, non solo per il piacere di mangiare, ma anche per inventare e creare piatti dalle composizioni estetiche innovative prendendo spunti dalla cucina tradizionale, orientale o internazionale. Raggiungendo risultati suggestivi sia nel gusto che nell’estetica.

Raggiungo Alessandro Chiti al telefono da dove mi risponde con un tono pacato e tranquillo nonostante il momento. Pur vivendo a Roma da tanti anni, non ha perso l’accento grossetano, meglio noto come toscano.

Ciao Alessandro, grazie per aver accettato questa intervista per “L’Altro Teatro”. Descrivimi una tua giornata attuale e una prima della permanenza forzata a casa

Poco è cambiato per me rispetto ai mesi precedenti, anche perché la primavera è sempre un periodo di stasi, in quanto la stagione teatrale sta per finire e iniziano ad arrivare proposte per i lavori della stagione successiva. In genere approfitto di questo periodo per fare qualche viaggio, dedicarmi alla lettura, ai miei pensieri, e molto tempo anche alla cucina, che è la mia altra grande passione. Vista la fase di blocco del settore teatro e l’incertezza per il futuro, le cose che mancano di più sono i progetti di lavoro per i mesi che verranno; mancano gli incontri preliminari, manca lo stimolo creativo che ha bisogno della concretezza del lavoro e quindi la giornata si fa più lunga e più vuota, rispetto a prima. In ogni caso cerco di iniziare al mattino con un po’ di attività fisica, poi la giornata continua rispondendo alle mail, ai social, o leggendo. Il pomeriggio è in genere dedicato alla cucina.

Hai vissuto un’infanzia felice e un’adolescenza un po’ buia (come succede a molti): cosa ti mancava, o ti faceva soffrire in quel periodo?

Si un’infanzia felice, in una famiglia dove ero molto coccolato. Ho visto il mio primo spettacolo all’età di 5 anni e forse proprio quello mi ha segnato per il resto della vita. La cosa che amavo di più era dedicarmi al teatro di burattini che avevo costruito con le mie mani e, insieme ad un coetaneo che abitava vicino casa, organizzavo due spettacoli all’anno a cui tutti gli amici dovevano assistere. Tuttavia ero un bambino mite e un po’ introverso e questo non ha contribuito a farmi avere un’adolescenza felice.

Dal momento che vivevo a Follonica, una bella cittadina sul mare, ma isolata dalle città più grandi, come Firenze o Roma, fui obbligato a seguire studi di carattere tecnico, visto che nella zona non c’era un liceo artistico. Mi diplomai in Elettronica. Successivamente, arrivato alla maggiore età, subito dopo il servizio militare, presi la grande decisione di cercare di fare nella vita quello che desideravo da sempre.

Sembrava un’impresa impossibile, poiché non avevo fatto studi di arte e, oltretutto, vivevo lontano da qualsiasi stimolo teatrale. La mia caparbietà, insieme all’appoggio dei miei genitori, che hanno sempre dimostrato di dare grande importanza al teatro e all’arte, mi hanno dato la giusta spinta per iniziare una nuova vita a Roma: studi di architettura, incontri con persone con cui condividere le mie passioni, e molta determinazione anche nei momenti di scoraggiamento, che non sono stati pochi. 

Come ti ha colto questa pandemia, a cosa stavi lavorando?

Il 2019 è stato un anno proficuo di lavoro, (Aladin il musical geniale al Teatro Brancaccio di Roma, Pinocchio Reloaded all’Arcimboldi di Milano) e, dopo due allestimenti nei primi due mesi del 2020, (Belvedere con Anna Mazzamauro, e Hamlet con Giorgio Pasotti e Mariangela D’Abbraccio) stavo progettando uno spettacolo con la regia di Paolo Vanacore al Teatro Belli di Roma. Stavo inoltre lavorando al saggio finale del corso triennale dell’Officina Pasolini, una Scuola di Teatro della Regione Lazio, dove insegno scenografia. Purtroppo questi due ultimi progetti sono saltati. Sto continuando a lavorare su Moby Dick con Branciaroli, programmato per la prossima stagione, ma non so cosa succederà.

Com’è la vita da docente, e quali sono le prime cose che dovrebbe sapere chi vuole intraprendere la tua carriera?

L’Officina Pasolini, dove ho la cattedra di architettura è una scuola di Teatro per attori, diretta da Massimo Venturiello, dove la mia materia supporta il lavoro di recitazione e si basa soprattutto sull’insegnamento della Storia del Teatro, inteso anche come luogo fisico, sull’analisi degli elementi del palcoscenico, e su nozioni di scenotecnica.

Oltre a semplici fondamenti, cerco di suscitare nei ragazzi l’interesse per quello che li circonda in palcoscenico e sviluppare la loro creatività nel progettare ipotetiche scenografie, discutendo anche la fattibilità delle loro idee.

Se un giovane mi esprimesse il desiderio di fare lo scenografo, cosa che spesso accade, forse cercherei in un primo momento di dissuaderlo, anche se questo, lo ammetto, è un lavoro bellissimo. E gli direi: solo se hai una vera passione e una vera motivazione puoi affrontare un simile mestiere, perché incontrerai davvero molte difficoltà che potranno essere superate solo se si possiede una grande determinazione e soprattutto l’umiltà di accettare continui compromessi. Dopo studi di architettura o di accademia, il “mestiere” va imparato soprattutto sul campo, ossia in teatro, facendo inizialmente l’assistente.

Come avviene il progetto per una scenografia, raccontiamolo a chi non è del settore.

Difficile sintetizzare: c’è la lettura del testo e la nascita di un’idea scenica. Il confronto col regista, che crea le basi concettuali dello spettacolo, la rappresentazione visiva di un’ipotesi (bozzetto), il confronto col produttore e nuovamente con il regista. Si valuta la fattibilità dell’idea con il responsabile tecnico, il disegnatore del suono, il disegnatore delle luci, il coreografo, il costumista e altre figure. Successivamente si sviluppa il progetto tecnico e architettonico. Si fa una richiesta di preventivi da parte di vari laboratori di costruzione, pittura e inizio costruzione. La fase successiva è l’inizio delle prove della Compagnia, che spesso determina variazioni anche nella realizzazione della scenografia. Alla fine il montaggio della scena in teatro, assistenza e completamento fino alla “prima”. Questo, in sintesi, è l’iter che ogni allestimento richiede. Oltre alle necessarie intuizioni artistiche, è necessario anche un grande spirito organizzativo e una grande capacità di mediazione.

Questa situazione ha messo in ginocchio il mondo intero dell’economia, e quello dello spettacolo è molto colpito. Come ne usciremo e quando?

Rispondere a questa domanda è difficile: dipenderà da quando riapriranno i teatri e soprattutto da quello che avrà lasciato, nel pubblico, un’esperienza come quella che stiamo vivendo.

Il Teatro, più del Cinema, ha bisogno del contatto diretto, il pubblico è parte stessa dell’evento teatrale e lo spettacolo non avrebbe senso senza la presenza degli spettatori.

Già dal 2010 è iniziato un fenomeno di disgregamento nel settore, la crisi economica lo ha colpito duramente, e le istituzioni si sono spesso dimenticate dello Spettacolo, che ha avuto sempre meno sovvenzioni. I “teatranti” che, per propria natura, hanno uno spirito piuttosto individualista, non sono mai riusciti a creare un’unica voce e a richiedere un riesame del settore. Basti considerare che ad oggi i lavoratori dello spettacolo, che in Italia sono circa 130.000, non hanno un Albo professionale, non hanno comuni diritti riconosciuti, non hanno cassa integrazione, ed oltre il 50% ha un reddito inferiore a 5000 €. annui e solo il 4,2% ha un reddito superiore ai 25.000 €.  Quello che si prospetta nel futuro, se non ci sarà un forte appoggio istituzionale, sarà veramente disastroso.

Hai al tuo attivo oltre 400 scenografie che rappresentano davvero una cifra enorme. Quali tra queste ti ha più appassionato?

Ogni scenografia da me ideata porta con sé un pezzo di me stesso: più sono grandi gli spettacoli, più sento il peso e la responsabilità degli investimenti che ci sono dietro. Quando riesco ad ottenere risultati con pochi mezzi, allora sono felice. E questo accade, ad esempio, quando la scena si fonde e completa con un’idea registica, e quando questo risultato si ottiene con un dispendio di mezzi minori, perché su tutto vince l’idea, più che l’ostentazione. E può accadere, come è accaduto ad esempio, fra i tanti, col Borghese Gentiluomo di Molière, messo in scena alcuni anni fa, con Tosca e Venturiello. L’artificiosità di questo mondo borghese era rappresentato da un avvolgente, enorme fondale, fatto da migliaia di pizzi e ricami, che assumeva con un equilibrato e sapiente gioco di luci, innumerevoli sembianze. Certo, ci sono spettacoli, come i musical, in cui bisogna far vedere “la ciccia”, come diceva un mio amico regista, e allora un po’ di grandiosità visiva deve per forza esserci.


di Giò Di Sarno