Interviste immaginarie: la parola alla parola!

lunedì 20 aprile 2020


Nel riordinare alcuni scaffali della mia monumentale biblioteca mi sono imbattuto nei miei vecchi sceneggiati per la Rai. Fra le varie rubriche radiofoniche che ho ideato e curato per una trentina d’anni, a partire dal 1950 – coniugando la cultura col divertimento ed estendendo il mio insegnamento a tutti gl’Italiani – c’era, per la Radio per le scuole, La parola alla Parola, una serie di sceneggiati in cui per primo e forse unico ancora in tutto il mondo, ho dato voce alle parole stesse, facendo raccontare a loro la propria storia, come se fossero dei personaggi in carne e ossa. Ho detto storia sia perché non sempre è facile risalire alle origini delle parole, sia perché anche loro nel corso dei secoli, come le donne, “mutano d’accento e di pensier”, cioè cambiano aspetto e spesso anche il significato. La Lingua è come la Storia: anche lei ha i suoi personaggi, che sono le parole. Imprigionate nel vocabolario, esse vengono continuamente prelevate, quali con maggiore, quali con minore frequenza, molte sono divenute davvero dei cadaveri, altre invece restano lì sepolte in un sonno secolare, finché magari qualcuno non le risveglia (come l’aulente di Gabriele D’Annunzio). Dice Orazio nell’Arte poetica:

                            Come negli anni mutano le foglie,

                       così passano pure le stagioni

                                 delle parole: le vecchie tramontano

                         e salgono le giovani. Alla morte

                       siamo votati tutti, uomini e cose.

                       Come dunque potrà durare eterna

                   la viva autorità delle parole?

                      Molte, già spente, rigermoglieranno,

                  e le presenti moriranno, quando

                  così lo voglia il bisogno, che regola

                  a capriccio le leggi della lingua.

 Quali strumenti dell’uomo le parole ne racchiudono la storia, sicché seguire le loro vicende significa approfondire la conoscenza di noi stessi e della verità. Ben lo sapevano i Greci, che dedicarono una grande attenzione allo studio dell’etimologia, convinti che le parole fossero pienamente aderenti agli oggetti che rappresentavano e che quindi, risalendo al loro significato originario, si potesse cogliere l’essenza stessa delle cose (etimologia significa infatti “studio del vero significato dei vocaboli”). Ecco quindi come dalla linguistica si può sconfinare non solo nella Storia ma anche nella Filosofia, nella Religione, nella Scienza, nell’Arte e in qualunque altro campo della ricerca e del sapere umano.

Ma il linguista fa qualche cosa di più, perché risalire alle origini delle parole significa scoprire i motivi che le hanno ispirate, i nostri impulsi, i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre meraviglie, le nostre paure. Sentite lo sgomento che c’è in questo verso di Ennio:

                  Africa tèrribilì tremit hòrrida tèrra tumùltu.

                  L’Africa tutta tremò nel tremendo tumulto di guerra.

E da dove proviene questa sensazione? In parte dal ritmo, che però è tipico dell’esametro latino, ma soprattutto dal suono di alcune consonanti (otto r, sei t) e dalla parola tumultu, che ha tre u, l’ultima delle quali suona, alla fine del verso, come un segnale inesorabile di paura. La traduzione, nello stesso metro latino, non è meno efficace.

Il linguista fa con le parole quello che lo storico fa coi personaggi: le fa rivivere, le induce a raccontare la loro nascita, le loro trasformazioni, le passa in rassegna, le schiera in battaglia, le studia, le analizza, intus et in cute, con una imparzialità che generalmente non possiede lo storico, il quale molte volte compie delle operazioni arbitrarie, interpreta i fatti dal suo punto di vista, infonde nei personaggi dei sentimenti, dei pensieri, delle intenzioni che essi magari non avevano, come fa Alessandro Manzoni con Adelchi o col conte di Carmagnola. A differenza dello storico il linguista non ha a che fare con quel guazzabuglio che è l’animo umano, perciò è più obiettivo, anche se pure lui non di rado prende delle cantonate. Ma non offende nessuno.

Il vocabolario è come un immenso esercito di soldati pietrificati e perciò, a differenza di tutti gli altri libri, sembra privo di vita, incapace di suscitare sentimenti, di stimolare i sensi e l’immaginazione. Massimo Bontempelli lo definiva scherzosamente un “cimitero in ordine alfabetico”, e D’Annunzio (di cui voglio ricordare due versi: “O poeta, divina è la parola” e “Parola, o cosa mistica e profonda”) a chi si stupiva che anche delle persone professionalmente colte si esprimessero spesso scorrettamente, rispondeva: “Perché nessuno in Italia vuole leggere e studiare il Vocabolario”.

La storia delle parole è collegata con quella delle cose: non si ricostruisce l’una se non si chiarisce l’altra. Worter und Sachen (parole e cose): questo è il metodo della linguistica moderna. Ugo Ojetti diceva: “La vita e la morte di una parola corrispondono anche alla vita e alla morte di un tipo”. Certi vocaboli, come sciuscià, per esempio, evocano subito un determinato clima storico; la loro scomparsa sta a significare che quel clima ormai non c’è più. Ogni parola, insomma, ha una sua storia, spesso più affascinante di un libro di favole o di fantascienza.

Furono queste considerazioni, oltre che la diffusa avversione dei giovani per il vocabolario, che più di mezzo secolo fa mi fecero venire un’idea. Perché, mi chiesi, non farle parlare le parole? Perché non animarle e dar loro la voce, come se fossero dei personaggi reali? Il vocabolario, del resto, è già un libro che “dà voce” alle parole, derivando dal latino vocare, “chiamare”, collegato a vox-vocis, e “voce” è termine usato anche nel significato di vocabolo. Poiché, come ho accennato, collaboravo già ad alcuni programmi radiofonici della Rai, ideai una rubrica dal titolo La parola alla parola!, che venne inserita nella trasmissione La radio per le scuole, e più precisamente in Senza frontiere.

A quella rubrica seguì più tardi, per Qui Radio 2 (a cura di Giovanni Gigliozzi), Parole alla sbarra, in cui presentavo, sempre in veste di personaggi, parole ed espressioni allora di moda (come cioè, contesto, al limite, nella misura in cui), processandole in un tribunale, con tanto di Accusa e di Difesa. La prima rubrica ebbe un tale successo che andò avanti per circa otto anni, sino a quando La Radio per le scuole chiuse i battenti, la seconda per tutta la durata di Qui Radio 2. Ma queste sono rubriche che possono andare avanti all’infinito ed essere sceneggiate anche per la televisione (come alcune da me realizzate per una Rete privata). Posso dunque dire che in questo campo sono stato un pioniere.

Ebbene, prima di dare la parola ad alcune delle parole intervistate da me (che sono circa un centinaio, da Abracadabra e Zenit), dirò che alcuni anni dopo da quella mia idea Luciano Rispoli (che curava per la Rai alcune trasmissioni a cui collaboravo anch’io: Gli amici delle 12, Cronaca Minima e Il Girasketch), passato dai programmi leggeri alla direzione del Dipartimento scuola educazione, dopo aver mandato in onda un revival della Radio per le scuole (con l’intervista di un giornalista venuto a casa mia e con la replica di uno dei miei sceneggiati), ricavò per la televisione Parola mia, che, pur non presentando le parole come personaggi, aveva una evidente analogia con La parola alla parola! Un plagio, tanto più riprovevole perché l’autore via via andò facendo man bassa di tutto il materiale che io avevo prodotto, attribuendosi pubblicamente (anche attraverso la stampa: ne conservo ancora il giornale) la paternità di quella mia idea, nonché il merito di essere stato il primo ad aver trovato la “formula magica” per “coniugare il divertimento con la cultura”. Vane furono le mie proteste, ma lui non mi chiamò nemmeno a collaborare, anzi, a completamento dell’opera, la sua assistente, Gabriella Carlucci, ebbe anche una rubrica su un settimanale per una serie di articoli sulla etimologia delle parole, che attingevano sfacciatamente a quelli miei pubblicati su due riviste della Rai, La Radio per le Scuole e Sintonia.

Da Parola mia al Campionato nazionale della lingua italiana (sempre di Luciano Rispoli) il passo fu breve, e anche quella trasmissione mostrava una evidente analogia con un’altra mia rubrica, A colpi di analisi logica, in cui due giovani gareggiavano fra loro scambiandosi domande sugli elementi della proposizione (del tipo: “Io?”. “Soggetto”. “Contesto?”. “Predicato verbale”. “La tua opinione?”. “Complemento oggetto con attributo”). Quella volta scrissi una lettera a Gianni Minoli e dopo una quindicina di giorni la trasmissione venne sospesa.

Un altro plagio che ho subìto è stato quello di Giovanni Gigliozzi, capo struttura de La Radio per le scuole, al quale avevo presentato un progetto sui Caffè storici d’Italia e i suoi illustri frequentatori e che me ne assicurò la realizzazione. Ma dopo circa un mese, a mia insaputa, trasse da quel progetto, per Rai 2 (alla quale pure, come ho accennato, collaboravo) In diretta dal Caffè Greco. Al che io gli risposi con il libro L’Italia dei Caffè, pubblicato da Rendina Editori (e ristampato più tardi col titolo I gloriosi Caffè storici italiani).

Chiedo scusa alla Direzione se mi sono permesso di rendere pubblica una vicenda personale (che non riguarda soltanto me), a completamento della quale aggiungerò che dopo un trentennio di collaborazione ai programmi della Rai, con una mole veramente insolita di scritti, fra cui non sono mancati sceneggiati storici, quali I pionieri della civiltà, Le svolte della Storia, I grandi antagonisti, Al tempo di… e Libri ricevuti (un centinaio di recensioni, con interviste ad alcuni degli autori, fra cui Giuseppe Ungaretti, Alberto Bevilacqua, Alfredo Todisco, Giovanni Testori ed Enzo Siciliano, mio collega al Liceo Castelnuovo), nel 1983, salito al Governo Bettino Craxi, fui elegantemente messo alla porta perché, richiesto, cortesemente, da uno dei direttori, m’ero rifiutato di prendere la tessera del Partito Socialista, io che non mi sono mai iscritto ad un partito politico. Per dirla in breve, qualcuno si era accorto che il mio linguaggio, chiaro, limpido, ‘impeccabile’ e affascinante, non era quello della Sinistra. A quel punto la mia collaborazione passò alle reti private, fra cui la “Tef” di Perugia, per la quale realizzai, in risposta a Rispoli, Parola spia, un quiz alla ricerca di parole contenute nei versi dei grandi poeti italiani. Appuntamento dunque alla prima parola di questa nuova serie di Interviste immaginarie. Ciao.

Parole come soldati

 

Chino sul foglio bianco

eccomi pronto alla mia battaglia

quotidiana.

Sto così per più di mezz’ora

a guardare il campo deserto,

a studiare un piano d’azione.

Finché dalla chiusa fortezza

qualche timida recluta

non tenta una sortita.

Altre seguono, quali

con passo incerto, quali

con passo svelto e sicuro.

Ora escono a squadre,

si buttano allo scoperto,

sì spostano, si precipitano

da una sponda all’altra del campo,

come cavalli sfrenati,

s’impennano,

si abbattono al suolo.

Interi plotoni

scompaiono annientati

da un’enorme esplosione.

Di rincalzo

giungono truppe fresche:

1’avanzata riprende,

il nemico batte in ritirata.

Alla fine sul campo

i morti si contano a centinaia.

I vivi sono stremati

ma soddisfatti: hanno scritto

un’altra pagina di storia.


di Mario Scaffidi Abbate