lunedì 20 aprile 2020
“Bisogna insegnare a credere, ma ancora di più a non credere. Perché ci sia in ognuno un po’ di bontà verso tutti, è necessario non credere che ce ne sia molta. L’uomo che fa di tutto per l’umanità e anche per la sua patria, è una bugia; ciò che è vero e ciò che è necessario ed è sufficiente affinché tutto vada bene è amare se stessi, la propria famiglia e i propri amici, qualche vicino e la propria città, un po’ anche qualcuno del proprio paese, quasi per nulla l’umanità, e per niente la specie, l’umanità di un’altra epoca. È l’unica cosa che c’è davvero nelle persone e questo è abbastanza”. Bisogna “vivere per il nostro amore, la casa, gli amici e aver compassione e simpatia per chiunque abbiamo vicino nel corpo e nella persona e che vediamo sofferente e bisognoso di aiuto: non per l’umanità”.
Basterebbe una riflessione come questa per capire che Macedonio Fernández – uno scrittore e un filosofo noto in Italia soprattutto per essere stato un amico e maestro di Jorge Luis Borges, che tra l’altro dice di lui di averlo imitato fino al plagio – è un pensatore sincero. Ma non è l’unico suo pregio. Come capita spesso alle persone sincere, è anche dotato di uno spiccato senso dell’umorismo e di una certa capacità di rilevare paradossi, di cui Cuadernos de Todo y Nada, uno dei volumi più densi della sua opera filosofica, è particolarmente ricco.
Del resto non bisogna stupirsi, perché per Macedonio la vita inizia con uno scherzo, dato che quando nasciamo ci sono già molti altri individui, e “in una quantità tanto immensa che in pratica essere uno di loro è meno che non essere” a causa dell’impressione d’insignificanza che questa scoperta produce. Anche una simile circostanza conferma l’ipotesi che la vita sia piena di sfide alla logica e al buon senso, come per esempio il fatto che “quanto più si vive, tanto più sarebbe stato probabile l’essere morti prima, perché si è avuto più tempo per morire”.
Macedonio non è né ottimista né pessimista: per lui c’è una buona probabilità che l’umanità civilizzata sia la specie vivente più infelice, ma è anche probabile che il riso e la tenerezza (e forse anche il piacere della musica) dell’animale chiamato uomo civilizzato ne siano la compensazione. Non è infatti d’accordo con Gottfried Wilhelm von Leibniz e con il suo “migliore dei mondi possibili”, ma nemmeno con Arthur Schopenhauer, che sembra credere che questo sia il peggiore, e crede piuttosto che “è indifferente esistere o non esistere”. Per Schopenhauer questo mondo è il peggiore dei mondi possibili e pensa che buddismo e brahmanesimo siano le religioni più perfette perché sono essenzialmente pessimiste. Macedonio pensa che abbia rifiutato il suicidio perché “considerava indistruttibile l’essere”, ossia perché riteneva che non solo questa vita fosse cattiva, ma con essa anche ogni altro possibile o successivo stato della sensibilità. In disaccordo con Schopenhauer, Macedonio non crede che la vita sia male, ma pensa con lui che l’unico modo per capire davvero che non è male sia capire che è un nulla, o una mera escrescenza del nulla destinata a nullificarsi, e per la precisione un’escrescenza prodotta dalla bellezza, dato che in fin dei conti “solo il nulla potrebbe prendere il posto di una cosa tanto bella” come l’esistenza.
Macedonio – che non si curò mai molto della sua fama e non cercò più di tanto nemmeno di pubblicare le sue opere, che poi furono raccolte e pubblicate postume da uno dei suoi figli, Alfonso de Obieta – pensava che l’essere popolari potesse coincidere con l’essere confusi con molte persone famose e che la vita avesse inizio in ogni momento, pur essendo anche convinto di essere nato in effetti, e insieme all’universo, il primo di giugno del 1874. Questa sua idea d’essere nato insieme all’universo non è immotivata perché, come George Berkeley, Macedonio crede che solo l’esistenza di un soggetto che percepisce possa attestare quella del mondo esterno, e cioè far sì che si possa dire “esiste”; e per quanto ognuno possa saperne la propria esistenza e quella dell’universo possono dunque aver avuto inizio solo nello stesso momento.
Probabilmente la vita non si propone nulla, non mira a nulla, né più né meno come i pianeti quando ruotano intorno a delle stelle: per Macedonio essa non si pone alcun fine e con la sua indifferenza sembra non raggiungere alcun obiettivo. Come i pianeti rincorrono senz’altra meta le loro orbite, così la vita “fa tutto ciò che le consente la meccanica del cosmo; lo stesso vivere o suicidarsi, il moltiplicarsi o il non moltiplicarsi, tutti i fini che si è creduto di discernere, la vita esiste per la specie, la vita insegue la crescita infinita di un organismo immortale”, perché la vita è “longevista”. La vita ha come meta l’inesistenza: quando qualche accidente – come per esempio l’aumento della temperatura del mare, o della terra, o la diminuzione di quella del Sole o qualsiasi altra causa – si verificherà, allora la vita cesserà e noi non ne sapremo nulla perché saremo ritornati nell’inesistenza che in fondo siamo sempre stati. Esiste forse una possibilità di non essere una simile inesistenza, ed è l’essere tutti lo stesso individuo mono–coscienziale: “mi è sempre capitato di pensare che la vita potrebbe essere un sistema molto vistoso, – scrive Macedonio – però senza alcuna finalità. Poi improvvisamente ho pensato che la sua aspirazione potrebbe essere un unico mono–individuo immortale, ma questa supposizione sembra smentita da un’infinità di fatti”.
Cartesio pensava che il pensiero non occupasse spazio, che fosse solo nel tempo, e così il sapere. Per Macedonio non è così, perché “ogni stato coscienziale pone un limite alla presenza simultanea di altri stati”. Due stati coscienziali non possono occupare lo stesso luogo nella coscienza, tendono cioè “a non poter occupare lo stesso istante coscienziale”. Quindi ogni stato di coscienza è una totalità irriducibile, è un tutto senza possibilità di relazionarsi ad altre totalità. Per Macedonio l’essere è come il sogno, intero, di un’anima, un sogno solipsistico, perché nessuna sensibilità è plurale. Non c’è nulla oltre ciò che sento; non esiste ciò che gli altri sentono, e tutto l’essere è in ciò che sento. Tutti questi assoluti coscienziali potrebbero però, in un’ipotesi estrema, essere concepiti per Macedonio come dei riflessi di un unico mono–individuo coscienziale, perché altrimenti ciascuno di loro sarebbe totalmente il reale, un elemento solipsistico che si staglia nel nulla coincidendo col tutto, ma in contraddizione per questo con l’esserlo anche di tutti gli altri.
Non meno solo di ogni individuo normale, quest’individuo mono–coscienziale immortale potrebbe essere ritenuto anche sostanzialmente irreale, dato che, a causa della sua solitudine assoluta, essendo deprivato di ogni suo possibile riflesso, non sarebbe in grado di produrre alcuna consapevolezza di sé; ma proprio questa circostanza potrebbe viceversa averlo indotto a disperdersi in riflessi infiniti, per poi di nuovo comprimerli in una sorta di Aleph che tutto riassume ed esprime nell’iridescenza di uno stesso uno–tutto. Quest’individuo mono-coscienziale immortale di cui parla Macedonio, non meno unico e causa sui del Dio di Baruch Spinoza, attesterebbe la sua realtà attraverso la propria deflagrazione nei suoi infiniti attributi e riflessi e modi, tali da restituirgli la propria immagine solo nel suo infinito dissolvimento e auto-rispecchiamento. Non sarebbe quindi meno reale, e avrebbe come il Dio di Spinoza l’innecessario e gratuito conforto di cogliersi in quel proprio unitario iridescente riflesso, nella moltitudine che non è e di cui pur garantisce e conserva l’essere nell’attesa eterna che si produca lo sguardo, sempre nuovo ma in fondo mai diverso, che sia capace di cogliere l’essere nell’unità del molteplice, nell’uno-tutto di se stesso.
Macedonio Fernández, Cuadernos de Todo y Nada, Corregidor, Buenos Aires.
di Gustavo Micheletti