Interviste immaginarie: Giovanni Papini

venerdì 10 aprile 2020


Fra le tante foto dei miei defunti “fratelli spirituali” disposte sugli scaffali di legno rossiccio della biblioteca che occupa tutte le pareti del mio studio spicca quella di Giovanni Papini con accanto una mia nella quale un giorno volli fare di lui un’imitazione. Giovanni Papini, che ho citato spesso nei miei libri, è uno degli scrittori italiani da me più amati. Ebbene, questa mattina ho pensato appunto a lui e in particolare al suo Diavolo, visto che, dopo avere tradotto in versi la Bibbia, sfrondata del superfluo (pubblicata da Herald Editore), vado scrivendo poemetti sacri (e polemici) su Dio e sulla Creazione. Per questo dopo pranzo, come faccio sempre, ho preso da un ripiano della mia biblioteca Il Diavolo per rileggerne alcune pagine, e mi sono seduto sulla poltrona reclinabile che poltrisce accanto alla scrivania. Prima di sfogliarlo ho chiuso gli occhi pensando a lui. Ero stanco e per un po’ l’ho tenuto chiuso fra le mani, finché a un certo punto mi sono appisolato. Quand’ecco dentro di me ho sentito una voce, forte e imperiosa, che, parafrasando i famosi versi di Dante, mi ha gridato:

“Svegliati, che fai? Non vedi tu Papini che s’è dritto dinanzi a te con tutta la persona?”.

“Fratello mio!”, ho esclamato, non appena l’ho visto ergersi col petto e con la fronte come se avesse il mondo in gran dispitto. Ma lui con tono affabile, mi ha risposto:

“Anch’io posso ben chiamarti fratello. Oggi sono pochi quelli che mi amano e mi apprezzano. Dalla fine dell’ultima guerra anch’io, come Gabriele d’Annunzio e Giosuè Carducci, ho avuto i miei detrattori, che mi hanno ridimensionato solo perché ho amato la patria. Per questo hanno scritto che i miei libri sono infarciti di retorica, che ho avuto una sola fede, ‘quella nella parola come sostanza sonora e suggestiva di bello stile e di abile oratoria. Mi hanno definito un Don Giovanni della letteratura, artificioso e freddo, che vuol mascherare con la pagina scaltrita la mancanza di autenticità”.

“Allora le lacrime che ho versato sui tuoi libri da dove mi sono venute?”.

“Io però devo ammettere che non ho mai fatto nulla per attirarmi la simpatia degli uomini, sui quali, anzi, ho scritto spesso cose cattive e pungenti. Ho definito sadici i giornalisti, una casta potente di spie che ci propinano un beverone di piaggeria, di retorica e di menzogna, ma non ci raccontano mai quel poco di buono che ancora c’è sulla Terra. Dei burocrati ho detto che sono un cancro della società, che impediscono ai governi di governare, e così via”.

“Il mio grande, immenso rammarico è di non aver potuto conoscerti di persona. C’è mancato un pelo al nostro incontro. Nel 1946, dopo che alla fine della guerra la mia famiglia era dovuta scappare dal Nord rifugiandosi a Reggio Calabria, in una fuga allucinante (eravamo 11 figli), per sottrarsi alla mattanza dei rossi, feci un salto a Firenze per incontrarmi con un mio ex compagno di classe del liceo Galileo (nella quale era stato alunno Giovanni Spadolini), ma anche con l’Editore Adriano Salani, amico di mio padre, a cui consegnai il mio primo romanzo, praticamente un diario, che avevo avuto il coraggio (anche in questo ti assomigliavo) d’intitolare Memorie di un repubblichino. Salani, che pur era stato fascista, dopo averne sfogliato in mia presenza alcune pagine, per farla breve, alla fine mi disse: Non c’è bisogno che tu faccia tagli o modifiche, basta una Premessa in cui dichiari di esserti pentito per aver fatto una scelta sbagliata’. Allora io, respingendo quella sua proposta, gli risposi: Ho amato la patria non meno di certi padri nobili dell’antifascismo e della Resistenza, credo che ciò basti, non per giustificare quella mia scelta, e tantomeno per perdonarla, ma per rispettarla”.

“Anch’io, che avevo aderito al fascismo, dovetti lasciare la Verna e mi nascosi nel vescovado di Arezzo, perché i comunisti mi davano la caccia per farmi fuori, mentre i partigiani mi saccheggiavano la casa di Firenze e le proprietà”.

“Così è accaduto anche alla mia abitazione di Castiglione delle Stiviere, dove dal ‘44 risiedeva la mia famiglia. Ebbene, chiesi a Salani se e come poterti incontrare. Avevo letto le tue Lettere agli uomini del Papa Celestino VI. Ma la ricerca fu vana, e me tornai a Reggio Calabria doppiamente scornato. Speravo di poterti incontrare attraverso la Rai, per la quale, oltre ai miei sceneggiati radiofonici, di carattere storico e linguistico, intervistavo anche gli scrittori. Macché. Oltretutto non ti vedevano di buon occhio, e ti dirò che dopo trent’anni di collaborazione, nonostante tutti si complimentassero con me per i miei lavori ineccepibili (fra l’altro avevo ideato una rubrica per la radio per le scuole intitolata La parola alla Parola!), mi misero elegantemente alla porta perché mi ero rifiutato d’iscrivermi al Partito socialista (allora era al Governo Bettino Craxi). Oggi per la maggior parte degli italiani tu sei uno sconosciuto, direi quasi scomunicato, dalla Chiesa e dallo Stato, perché hai osato dare una strigliata ad entrambi, come da qualche anno sto facendo io”.

“Gl’Italiani rinnegano il passato, ma non son forse nel passato gli spiriti magni, i fratelli sepolti e pur vivi e presenti che mi hanno consolato negli anni della solitudine e negli anni dell’esodo, che mi hanno dato i pensieri, le immagini, le parole, e che mi hanno fatto, piccolo o grande, quel genio che sono stato? Ad essi soltanto debbo lo schifo dei mediocri. Non ho amato nessun vivo caldo e parlante come quei celebri cadaveri”.

“Tu hai frequentato il Caffè Aragno e io nell’Italia dei Caffè, ristampato da un altro editore col titolo I gloriosi Caffè storici d’Italia e con l’aggiunta di Interviste immaginarie a loro illustri frequentatori, ti ho riservato due pagine”.

“Il caffè mi dava l’ispirazione, come a Gabriele D’Annunzio, che se lo portava dietro in un termos anche quando guidava l’aereo. Poi ho finito per detestarlo. Come tutte le altre cose. Mi dava fastidio il fatto di dover essere debitore della mia ispirazione ai caffè che bevevo. E non soltanto a quelli. Se dopo aver bevuto due tazze di caffè diventavo più acuto, se connettevo meglio e mi sentivo più in vena dopo un bicchiere di spumante, se un brano di musica mi faceva nascere pensieri, immagini e intere pagine che diversamente non avrei saputo evocare, ebbene, allora mi chiedevo dove fosse il mio io esattamente. Ero talmente rimpastato con tante di quelle cose e di quelle persone da non poter raccapezzare la mia vera personalità. Essere debitore a Dante, a William Shakespeare o a Giacomo Leopardi per me era già abbastanza noioso, ma dover qualcosa a una tazza di caffè o a un bicchiere di vino mi mortificava”.

“Ti capisco: ho provato anch’io questo fastidio. Se Ludwig Feuerbach diceva che l’uomo è ciò che mangia, io rifiutavo il cibo perché inquinava la mia coscienza, tanto che spesso, quand’ero ragazzo, alla fine del pranzo mi chiudevo nel bagno, mi ficcavo due dita in gola e rigettavo. Poi mi facevo il segno della croce e ringraziavo Dio per il felice esito di quell’operazione”.

“Io non riuscivo nemmeno a sopportare di essermi formato in grembo a mia madre”.

“Ti dolevi di essere nato?”.

“No, volevo essermi fatto da me”.

“Come Dio, più o meno”.

“Dio esiste ab aeterno, non è mai nato”.

“Comunque tu volevi essere un Dio. Come Adamo quando mangiò il frutto proibito”.

“No, io non mi sono mai creduto un Dio”.

“Un Diavolo, allora. Per questo hai scritto un libro su di lui”.

“Si, ma per dimostrare che non esiste, come persona, che è uno dei tanti aspetti di Dio”.

“A trent’anni scrivesti e pubblicasti un libro intitolato Le memorie d’Iddio, in cui ironicamente, facevi dire a Dio: Uomini, diventate atei tutti: io stesso, il vostro Dio, ve lo chiedo!”.

“Ma dopo la mia conversione me ne pentii sino alle lacrime e incaricai mia figlia di cercare tutte le copie non vendute e di bruciarle”.

“Nel 1913 su L’Acerba, la rivista che avevi fondato, pubblicasti un articolo intito­lato Cristo peccatore, in cui insultavi Cristo, tanto che l’arcivescovo di Firenze ne proibì la lettura e venne intentato contro di te un processo per oltraggio alla religione”.

“Ma venni assolto”.

“Qualcuno scrisse: ‘Quel fetido, ignorantissimo e stupidissimo porcume dell’Acerba non è il vero Papini. Io nei miei libri, a cominciare dalla Bibbia in versi sino al poemetto I grandi mali della santa Chiesa non sono stato così polemico come te”.

“Io non chiedevo né gloria, né compassio­ne, chiedevo umilmente, in ginocchio, con tutta la forza e la passione dell’anima, un po’ di certez­za: una sola, una piccola fede sicura, un atomo di verità, della quale ero assetato come forse nessuno, per ciò che riguardava Dio. Senza quella verità non riuscivo a vivere e poiché nessuno sapeva risponder­mi desideravo addirittura di morire, per poter trovare o la beatitudine della piena luce o la quiete dell’eterno nulla”.

“Alla fine, però, ti arrivò la risposta a tutti i tuoi dubbi e ai tuoi interrogativi. Com’è accaduto a me. E per questo tu mi sei stato e mi sei fratello ben più degli altri che ho così tanto amato. Nello scrivere il mio ultimo poemetto su Dio, La Divina Tragedia, ti ho pensato continuamente, perché ho sempre condiviso con te un aspetto di Dio che la Chiesa non accetta: il suo eterno dolore, non solo quello che ha patito nelle vesti di Cristo. Il fatto di conoscere tutto ciò che sarebbe derivato dalla sua Creazione, il bene, ma anche il male, la pace, ma anche la guerra, il piacere, ma anche il dolore, non poteva lasciarlo indifferente: le sue arrabbiature, la sua gelosia il suo prendere atto che quel che andava creando via via era buono o cattivo, come dice Mosè (e vide ch’era buono, ‘si rese conto che non era bene che Adamo restasse solo, e addirittura si pentì della sua Creazione, sterminando l’intera umanità) è indice di una creazione sofferta, che c’induce a credere che non soltanto nella sua veste umana, non soltanto in Cristo Dio abbia sofferto, ma che nella sua essenza stessa Egli abbia, ab aeterno, il dolore, come il male e tutto il resto”.

“Se Dio è tutto non può essere che così. Il parto della donna, come della femmina degli animali non è una sofferenza? Può Dio sapere soltanto che cos’è la sofferenza senza provarla Lui stesso? Quando Dio dice ad Eva Partorirai con dolore e ad Adamo Mangerai il pane col sudore del tuo volto dice semplicemente una verità, indipendente dal peccato, che è un’invenzione di San Paolo, e va spiegato in questo senso”.

“Anch’io sono arrivato a questa conclusione, oltre che ad una visione scientifica di Dio e della Creazione, nata non dal nulla, come dice la Chiesa, in quanto Dio è tutto e dovunque non c’è che Lui, ma dalla sua essenza stessa. E se Dio è amore dev’essere, necessariamente, an­che dolore”.

“Se l’amore è comunione perfetta tra l’amato e l’amante ne consegue che ogni pena e sventura dell’amato intenebra e intossica l’anima del­l’amante. Se Dio ama le sue creature come un pa­dre ama i suoi figli, Egli deve soffrire e sicuramente soffre dell’infelicità de­gli esseri da Lui creati. Noi non pensiamo a questo dolore di Dio, non abbiamo alcuna pietà di que­sto suo tormento. Noi chie­diamo al Padre doni, interventi, perdonanze, ma nessuno partecipa con la tenerezza di un consapevole affetto filiale alla perenne angoscia di Dio. Il dolore di Cristo non fu che un momento, sia pure essenziale e supremo, del dolore di Dio: se è lecito usare una profanissima parola in tema tutto sacro e sublime, Cristo fu la fase spettacolare del divino dolore. La passione di Cristo non fu che la fisica Epifania, circoscritta nel tempo e nello spazio, di una Passione che è anteriore e posteriore alla Croce. La Croce non è che il simbolo finito e tangibile d’una Crocifissione che la precede e la segue. Dio soffre, infine, nel riconoscere che tutto il Suo sangue non ha potuto impedire che la terra sia ancora intrisa, imbevuta di sangue fraterno. Chi non ama Dio nel suo dolore non merita il suo amore”.

Dio è simile al grembo d’una madre,

ma infinito ed eterno, e solo in esso

può generare gli uomini e le cose.

Lui ci ha creati per amor di sé,

per farsi amare più che per amare.

E se l’amore è piena comunione

fra l’amante e l’amato ogni afflizione

dell’amato coinvolge anche l’amante.

Il dolore di Cristo fu soltanto

un momento, visibile, sublime

e necessario di quello di Dio.

Cristo ha sofferto solo sulla Croce

negli anni della sua predicazione.

Ma quante sono al mondo le persone

che hanno sofferto e soffrono ogni giorno,

sino alla morte, malate, straziate

nel loro corpo, senza braccia o gambe!

E pure in quelle non c’è forse Dio?

E come non potrebbe Egli soffrire

vedendo in noi tanto travaglio e pianto?

E tanto più prova dolore in quanto

a nulla è valso il sangue che ha versato.

(Da La Divina Tragedia)


di Mario Scaffidi Abbate