mercoledì 11 marzo 2020
Come è capitato a molti santi e mistici, anche il grande scrittore e saggista rumeno Emil M. Cioran ebbe con Dio un rapporto poco conciliante. Nel suo caso, sia la fede che la sua negazione, sia l’amore per Dio che l’odio per Dio, si fondavano su un rapporto autentico con la sofferenza, un rapporto cioè privo da infingimenti ed esente da strategie consolatorie. Come per Fëdor Dostoevskij, anche per Cioran la sofferenza è infatti “la causa unica e sola della coscienza”. È solo grazie alla sofferenza che noi possiamo smettere di essere delle marionette, ed è solo grazie ad essa che noi possiamo acquisire la sensazione d’esistere.
Del resto, già prima di Dostoevskij i grandi tragici greci ce lo avevano insegnato: in base alla legge che sta a fondamento della tragedia attica, la legge del to pathei pathos, la conoscenza deriva essenzialmente dal dolore. “Gli uomini – scrive Cioran – si dividono in due categorie: quelli che lo hanno capito, e gli altri”. Giacomo Leopardi, per esempio, lo aveva capito molto bene, come si evince, in particolare, da un verso contenuto ne L’ultimo canto di Saffo, là dov’è scritto che “arcano è tutto fuor che il nostro dolor”. Solo il dolore, infatti, può essere veramente conosciuto, solo esso non è per noi misterioso e quindi solo seguendo la traccia che lascia nella nostra vita possiamo in qualche modo intravederne un senso.
Chi invece non ha avuto occasione di comprendere questo rapporto della conoscenza col dolore non può nemmeno cogliere l’occasione che questo offre per una trasfigurazione di sé che preluda a una rinascita, né potrà mai accedere alla mistica che coglie in Dio una proiezione del niente. Ciò che Jacques Lacan chiamava “il luogo dell’Altro”, se non è occupato da una figura amica, può essere occupato solo da una figura nemica. Quando è vuoto, si può solo oscillare tra queste due alternative, tra la tentazione di riempirsi con l’una o con l’altra. Per questo Cioran può dire di odiare Dio e non desiderare di fatto nient’altro che l’amore di Dio. Ma la differenza sottile tra odio e amore di Dio non è molto diversa da quella che sussiste tra Dio e il niente e che caratterizza la mistica: “Tutto è niente – scrive Cioran sulla scia di altri grandi mistici dei secoli precedenti – questa la rivelazione iniziale dei conventi. Così comincia la mistica. Tra il niente e Dio c’è meno di un passo, perché Dio è l’espressione positiva del niente”.
L’ascesa al cielo di ogni mistico s’invera infatti nel suo sguardo, nei suoi occhi. Così, nella misura in cui i nostri occhi s’imbevono del nulla, “sanno tutto. Imbevuti del nulla ci assicurano che niente ci può più accadere”. Proprio quando nulla ci può più accadere, l’ambivalenza oscillante del nostro rapporto con Dio rivela il nostro destino: “il nostro fallimento non si fa mai tanto evidente come nell’oscillazione misteriosa che ci sospinge lontano da Dio per ricondurci poi a Lui”, in un’alternanza “che palesa nella sua interezza la incurabilità del nostro destino”.
La funzione dell’uomo sulla terra è dunque quella di svuotare Dio e ricondurlo al suo niente: “la nostra comparsa sulla terra dovrebbe salvare la perfezione divina. Ciò che nell’Onnipotente era ‘esistenza’, infezione temporale, colpa, si è canalizzato nell’uomo e Dio ha salvato così il proprio nulla. Grazie a noi che gli serviamo da immondezzaio, Egli resta svuotato di tutto”. L’oblio di tutto è alla fine l’unica speranza che per l’uomo rimane intatta. Solo attraverso l’oblio il niente porta a compimento il nostro destino: “se cerco una parola che mi renda insieme felice e triste, ne trovo una: oblio. Non rammentarsi più niente, guardare senza ricordare, dormire a occhi aperti sull’incompreso”.
Rimane il dubbio, in margine a queste riflessioni di Cioran, che per accedere a una qualche sorta di oblio sia necessario aver fatto esperienza di una forma di perdono, in quanto solo il perdono può estinguere l’insonne e affannoso moto della mente e del cuore. Vengono in mente al riguardo gli splendidi versi di Fernando Pessoa: Non ci sarà dunque,/ per le cose che sono,/ non la morte, bensì/ un’altra specie di fine/, o una grande ragione:/ qualcosa così, come un perdono?
Forse davvero solo qualcosa così, come un perdono, può consentire una qualche forma di oblio. Ma per poterci meritare un perdono, almeno in una prospettiva cristiana, noi abbiamo prima bisogno di una colpa, e poiché solo Dio è in condizione di perdonare completamente, di ripulire l’anima di chiunque sia in grado di credere all’implacabilità del suo discorso e alla sua implicita giustizia, solo di fronte a Dio la nostra colpa può essere, ad un tempo, assoluta e redenta.
Un simile Dio, scaturito da quella lettura paolina del cristianesimo che ne fece per Friedrich Nietzsche una religione del risentimento, è unico e solo, e dunque privo dell’Altro. Ma proprio in quanto unico e solo, proprio in quanto unica sostanza, per Baruch Spinoza Dio può trascendere la propria radicale solitudine rispecchiandosi nell’amore intellettuale che l’uomo prova per lui. Dio può così trovare la sua salvezza in un proprio riflesso, testimoniando che anche lui ha bisogno di produrre in sé l’illusione dell’Altro. L’uomo che può riconoscersi in quest’illusione, necessaria a Dio per poter amare se stesso, l’uomo che scopre d’essere un mero riflesso dell’amore con cui Dio si riama può accedere allora anche al dissolvimento di sé come soggetto, può approdare a una sorta di noluntas, può veder dissolvere la propria cupiditas realizzandola pienamente nell’amore intellettuale di Dio.
Ma per chi non accede a questa forma estrema d’amore Dio non può fare a meno di proporre il più drastico e radicale dei ricatti. In altri termini, per chi non trascende la propria colpa rispecchiandosi nell’amore intellettuale di Dio non può che esservi ammissione di colpa e un peccato originale che la supporta, dato che senza ammissione di colpa non può esservi perdono; ma ammettere la propria colpa, l’aver bisogno di una colpa in vista di un perdono, è già rendersi effettivamente colpevoli, è un colpevole cedere a un ricatto in cambio di una procedura di salvezza.
Emil M. Cioran, Lacrime e santi, trad. it. Milano, 1990; ed. cit. 2002.
di Gustavo Micheletti