Opinioni a confronto: poesia e non poesia

giovedì 5 marzo 2020


“Oggi parliamo di poesia: Paulo maiora canamus, come diceva Virgilio: parliamo di cose che possano innalzarci di fronte alle ‘bassezze’ della nostra vita quotidiana. Ricordiamo, almeno ogni tanto, anche sulla pagina di un giornale, i nostri grandi poeti del passato. Benedetto Croce, nel 1922, pubblicò un saggio intitolato Poesia e non poesia, nel quale già allora lamentava ‘l’individualismo arbitrario di artistico capriccio e di falsa genialità’, e dopo avere elencato i vari tipi di poesia (letteraria, oratoria, epica, tragica, popolare, erotica, prosastica e dialettale) sosteneva che quella dell’Alfieri, con tutto il vigore e la sapienza che lui ci metteva dentro e con la fama che s’era conquistato, era ‘oratoria appassionata’, ma non poesia. E quanto a Leopardi, il ‘poeta filosofo’, che ha commosso sino alle lacrime migliaia o milioni di giovani, diceva che la filosofia quando è ottimistica o pessimistica è pseudofilosofia, o ‘filosofia a uso privato’. E concludeva il suo discorso con una verità che è rimasta scolpita nella mia mente, e su cui dovrebbero meditare tutti, specialmente i politici e la Chiesa: ‘Di tutto si può dir bene o male, salvo che della realtà e della vita, la quale crea essa e adopera ai suoi fini le categorie del bene e del male, onde la lode o il biasimo che l’uomo infligge alla realtà non hanno nel fondo altra consistenza che quella di un moto passionale, cagionato da buono o da cattivo umore’”.

“Dunque il decadimento della poesia, stando al Croce, è iniziato nei primi del Novecento, col Decadentismo”.

“Attenzione! Decadentismo non è sinonimo di decadenza. A questo proposito vorrei rilevare, anche qui, un grosso errore che commettono persino illustri linguisti quando definiscono decadenti i poeti del Decadentismo, romantici i poeti del Romanticismo, neoclassici i poeti del Neoclassicismo: si tratta di ‘movimenti’, in questo caso letterari, ma ciò vale per tutti i movimenti: come diciamo ‘illuministi’, ‘positivisti’, ‘veristi’, e mettiamoci dentro pure i ‘fascisti’ e gli ‘antifascisti’, così gli appartenenti al Decadentismo devono essere definiti decadentisti, quelli del Neoclassicismo neoclassicisti e quelli del Romanticismo romanticisti, poiché il termine romantico è generico e indica un ‘sognatore’, un ‘idealista’, qualunque sia la sua ideologia, letteraria, politica e così via. Finiamola con questa storia, l’Accademia della Crusca si decida una buona volta a togliere almeno dalla bocca degli insegnanti e degli alunni questo macroscopico errore. L’ho fatto presente più volte, anche al ‘Comitato Ministeriale per la salvaguardia della lingua italiana’ nel 1994, che all’origine invece di ‘salvaguardia’ recava la parola ‘difesa’”.

“E perché fu cambiata quella parola?”.

“Perché Tullio De Mauro, scandalizzato, gridò: ‘Qui non c’è niente da difendere!’. Nencioni, che allora era presidente dell’Accademia della Crusca, propose ‘tutela’, ma anche questa parola venne scartata. Fui io a proporre la parola ‘salvaguardia’. E così andò avanti il Comitato sino a quando la Sinistra, salita al potere, lo sciolse, perché la Destra aveva avuto l’ardire di mettere il naso anche nella lingua”.

“Ma quando è nata la Poesia?”.

“Sembra che la sua origine risalga al XVIII secolo avanti Cristo e che, non essendo ancora nata la scrittura, sia stata tramandata a voce. Il primo teorizzatore è stato Democrito di Abdera, che definiva il poeta un ‘invasato da uno spirito sacro’ e la Poesia uno ‘straniamento’, cioè l’uscire dalla ‘prosaicità’ della vita, un liberarsi dal suo quotidiano tran tran. Platone nell’Apologia di Socrate diceva che i poeti concepiscono le loro opere ϕύσει τινὶ καὶ ἐνθουσιάζοντες, spinti da un ‘entusiasmo’ proveniente da un dio. Come tutte le cose in ogni campo dell’attività umana, anche il concetto di Poesia nel corso dei secoli ha subìto dei mutamenti, specialmente nella letteratura italiana”.

“Ricordo che nel Seicento, in Italia, il fine della Poesia era la meraviglia: ‘È del poeta il fin la meraviglia, chi non sa far stupir vada alla striglia’, diceva Giambattista Marino”.

“In seguito il contenuto della Poesia divenne il ‘sentimento’, l’‘ideale’, a cui successivamente si contrapposero la ‘realtà’, il ‘sociale’ e così via. Ogni genere di poesia, infatti, ha una sua prerogativa particolare. Poi ci sono i poeti che badano ai contenuti e quelli che si preoccupano della forma, come Vincenzo Monti, definito da Leopardi ‘poeta dell’orecchio e della immaginazione, ma non del cuore’”.

“La poesia contemporanea ha perduto molti dei suoi caratteri fondamentali, innanzitutto il ritmo e la musicalità”.

“Il grande cambiamento cominciò con Marinetti quando nel 1905, prima ancora che nascesse il Futurismo, sulla rivista Poesia promosse il verso libero. Si voleva, infatti, una poesia ‘libera’, emancipata da tutti i vincoli tradizionali, ritmata dalla ‘sinfonia’ dei comizi, delle officine, delle automobili, degli aeroplani, e così via. Zang Tumb Tuuum, di Marinetti, del 1914, è stato il primo libro ‘parolibero’ nella storia della Poesia. Spesso le poesie di oggi sono righe di prosa spezzettate e incolonnate al centro della pagina per dare l’apparenza di versi. Mancano infatti il ritmo e la musicalità, e una poesia senza ritmo e senza musicalità non è poesia. Come questo brano, tratto da una ‘versione poetica’ dell’Eneide di Rosa Calzecchi Onesti, che la critica ha definito ‘impeccabile’:

Armi canto e l’uomo che prima dai lidi di Troia
venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge
lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda
di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone.

Ben diversi sono stati su Internet i giudizi di alcuni studenti, uno dei quali, dopo avere elogiato la mia traduzione, scrisse testualmente: ‘l’Eneide della Calzecchi Onesti non scorre per niente; alle volte bisogna reinterpretare quanto scrive. Io la trovo stancante: si fa meno fatica a leggerla in lingua originale’. Un altro sulle mie traduzioni in generale scrisse: ‘Finalmente capisco qualcosa’. E un altro: ‘Esistono anche traduttori simili. Storicizzare!’. Un altro, invece, sulla mia traduzione in versi endecasillabi delle Metamorfosi scrisse: ‘La traduzione è buona e scorrevole, ma sono versi antiquati, del Seicento’”.

“Addirittura! Il fatto è che oggi mancano i poeti, quelli veri, e l’ispirazione viene non dall’alto ma dal basso, da vicende e sentimenti personali, e dunque rarissime sono le vere poesie. C’è chi definisce ‘avvilenti’ le ‘poesiucole che si leggiucchiano qua e là’, chi sostiene che si scrivono ‘con la scusa di voler esprimere liberamente la sensibilità personale, ma sono banali, scontate, smielose e sdolcinate, incapaci di suscitare un autentico sentimento o un brivido’”.

“Quando scrivevo su Voce Romana, in cui ogni tanto infilavo qualche mia poesia (e della cui Associazione ero vice presidente) frequentai per diversi anni due Caffè letterari e a un certo punto una casa editrice (Nuova Impronta) mi chiese di commentare le poesie contenute in una antologia intitolata Poeti al Caffè. Alla presentazione del libro alcuni, soprattutto le donne, protestarono energicamente perché non avevo dato il giusto rilievo alle loro poesie: come questa: ‘Alternanza / di partenza e arrivi, / la vita / come una stazione’. Punto. Altro che il ‘M’illumino d’immenso’ di Ungaretti! Fra parentesi ti dirò che l’ho conosciuto personalmente e gli ho stretto la mano in Campidoglio, intrattenendomi alcuni minuti con lui, grazie ad un mio carissimo alunno, Francesco Scardamaglia, il cui nonno gli era molto amico, e successivamente lo intervistai per uno dei programmi culturali della Rai a cui collaboravo. Ebbene, come gli chiesi alcuni dettagli su quella sua ‘poesia’ (che io, pur apprezzando Ungaretti, non ho mai considerato tale), lui mi rispose testualmente: ‘Hanno fatto tanto baccano per quelle due parole che mi vennero spontanee, come possono venire a chiunque in un mattino pieno di sole, al quale appunto alludevo in quelle due parole’”.

“Non dimentichiamo che ci sono state epoche in cui i poeti hanno innalzato l’uomo a Dio e valorizzato la donna, definendola ‘angelicata’ e ‘scala al Fattore’, cioè un mezzo per arrivare appunto a Dio. Ma la poesia è anche un conforto, serve a superare i dolori della vita. Gl’insegnanti nelle scuole devono valorizzarla, spingendo i giovani ad amarla”.

“Bisogna vedere se e quanto l’amano loro, come la leggono, come la spiegano. I miei alunni andavano in estasi quando leggevo e spiegavo le poesie. Una nel suo diario ha scritto: ‘Quando recitava la Divina Commedia o spiegava un sonetto l’aula diventava la piazza della Firenze del Trecento e la cattedra il palcoscenico di un teatro dove si muovevano dame e cavalieri, tra il rumore dei cavalli e il vocio di un mercato all’aperto’. Un giorno una troupe della RAI, guidata da Pippo Baudo e Oreste Lionello, venne ad intervistarmi nella mia classe, riprendendomi mentre recitavo il Canto notturno di Leopardi accompagnato in sottofondo dal Chiaro di luna di Beethoven. Avevo infatti introdotto nella scuola una novità, come avevo fatto alla RAI con La parola alla Parola! Uno sposalizio fra la poesia e la musica”.  

O Poesia, mia cara e dolce amica,
per tutta la mia vita tu sei stata
l’ispiratrice. La mia vena antica
a questa età mi si è moltiplicata.

È come un seme che mi cresce dentro,
da cui man mano si sviluppa il frutto,
e più mi accendo, scrivo e mi concentro,
giunto alla sera ormai sono distrutto.

Ho cominciato a scrivere dei versi
quando ancora non ero che un bambino,
molti dei quali ormai si sono persi.
Me ne beavo come un cherubino.

Nel Millenovecentotrentasei
(avevo dieci anni o poco più),
vestito da balilla, insieme ai miei
piccoli camerati, stavo giù,

sotto il noto e fatidico balcone
ad ascoltare dalla viva voce
di Mussolini la proclamazione
dell’Impero. Con impeto precoce

per quell’età, tornato a casa mia,
con la patria nel cuore, in un momento
(fu la mia prima vera poesia),
scrissi dei versi sull’avvenimento,

che poi mio padre stesso consegnò
direttamente al Duce, e l’indomani,
vestito da balilla, mi portò
su da lui, che mi strinse ambo le mani.

Un fatto raro. Cominciò da lì
la mia grande e prolifica avventura
della Poesia: fu quello il mio abbiccì.
Miglior dono non c’è della natura.

“O poeta, divina è la parola:
ne la pura bellezza il ciel ripose
ogni nostra letizia e il Verso è tutto”.
Così diceva d’Annunzio. Ed ancora:

“Parola, o cosa mistica e profonda;
ben io so la tua specie e il tuo mistero
e la forza terribile che dentro
porti e la pia soavità che spandi”.

“Il pensiero ha per cima la follia”,
diceva il grande Vate, e questa frase
in un libro io già l’ho fatta mia:
la nascita del mondo ha questa base.

D’altra parte l’orgiastico concetto
della sacra e terribile follia
risale appunto a Dioniso, l’eletto
dio dell’estasi e della Poesia.

La Parola di Dio è Poesia,
non una prosa spezzettata a caso:
è suono, ritmo, incanto ed armonia.
Non ci prendano dunque per il naso

certi “poeti”. Che ritorni, quindi,
il verso vero, quale ch’esso sia,
non, come dice Dante, “il pappo e il dindi”,
se no è la fine della Poesia.

(Da "Inno alla Poesia", brani)


di Mario Scaffidi Abbate e Renato Siniscalchi