giovedì 5 marzo 2020
Carlo Michelstaedter, nato a Gorizia nel 1887 da famiglia ebrea-italiana, appartiene alla schiera di quei pensatori la cui filosofia ha origine da un’unica contrapposizione fondamentale. Per alcuni di questi, come Schopenhauer, Nietzsche o Wittgenstein, tale caratteristica è mascherata dalla storia della loro produzione che, estendendosi in un periodo relativamente lungo, presenta articolazioni che ne variano e arricchiscono le problematiche. Basterebbe tuttavia limitarci alla considerazione delle loro prime opere per avvertire distintamente la struttura dicotomica del loro approccio iniziale.
Nel caso di Michelstaedter tali sviluppi non sono stati possibili, perché la sua attività ha avuto termine quando aveva solo ventitré anni. Aveva appena ultimato il suo saggio di laurea: La persuasione e la rettorica, saggio che oggi è considerato da molti uno dei più significativi della letteratura filosofica italiana del Novecento. La Persuasione: ovvero lo stare raccolti in prossimità del proprio dolore, l’aderire alla traccia lieve che si sta per lasciare, “l’affermarsi senza chiedere”, “il lavorare nel vivo del proprio valore”. La Rettorica: ovvero il dispersivo intrattenimento di sé, la mediazione infinita di un sapere inessenziale e accattivante, specchio che ricompone a suo arbitrio la nostra immagine rendendola ogni volta inconsistente ed estranea.
Il paragone ellittico su cui è imperniata la sua opera maggiore – a simili paragoni sono spesso inclini i poeti dotati di attitudini filosofiche – attraversa anche la sua produzione poetica. Sebbene le poesie di Michelstaedter risultino talvolta verbose e gonfie di un’inquietudine che ristagna, che non trova più motivi di contesa, esse colpiscono per il loro volo grave e per l’adolescente coerenza che lasciano trasparire. Se nella sua opera filosofica viene consumata l’illusione che la scissura tra la Persuasione e la Rettorica possa essere colmata, la sua poesia – che di quella consunzione esacerbata raccoglie i riflessi di volta in volta più cupi o felici – sembra anch’essa priva di un sufficiente “nutrimento persuasivo”, e si cristallizza in versi solo sporadicamente tersi e vivi. L’eco d’immagini e circostanze leopardiane non vi trova una misura adeguata, e l’autore non afferra quasi mai la propria esperienza in una stretta perspicua, ma pare trascinarla con fatica febbrile.
Quando, nell’ottobre del 1910, Michelstaedter si uccise, doveva essere persuaso che il discorso della sua vita fosse giunto ad un punto morto, ad uno stridente vuoto, da dove sarebbe suonato falso il discorrere con sé ancora e dal quale la sua poesia non avrebbe potuto più trarre spunti felici. Resta però il dubbio che anche quella persuasione fosse forgiata con gli strumenti della rettorica, in una delle sue molteplici sembianze, e che questa, sostenuta da una limpida architettura filosofica, abbia protratto il suo inganno prendendo le distanze da sé e così, fingendo la propria resa, abbia ancora una volta portato a termine il suo segreto piano persuasivo, riducendo la vita ad un corollario della sua arte.
Carlo Michelstadter, Poesie e La Persuasione e la Rettorica, Adelphi editore
di Gustavo Micheletti