I Consigli ai politici di Plutarco

giovedì 9 gennaio 2020


Plutarco? Chi era costui?”, si chiederanno molti politici nostrani, come Don Abbondio con Carneade mentre leggeva un panegirico in onore di San Carlo. Quanti di essi avranno letto i suoi Consigli ai politici? Eppure nessuno scrittore è stato, in ogni tempo, così profondo e attuale come lui, considerato uno dei più grandi maestri di saggezza, il simbolo per eccellenza della virtù. Tutti ne hanno subìto l’influsso. E l’hanno amato anche gli scrittori cristiani, da Clemente di Alessandria a Basilio di Cesarea, riscontrando in lui una sorprendente affinità di pensiero e di sentimenti, e per questo alcuni hanno ritenuto che avesse letto il Vangelo, diffondendone il messaggio nei suoi scritti.

Per Plutarco l’attività politica deve fondarsi non su una infatuazione, dettata da vanagloria o spirito di rivalità, né sulla mancanza di altre occupazioni, ma su una scelta chiara e sicura derivante dal giudizio e dalla ragione. Si tratta di una vocazione, come quella religiosa o artistica. Molti, invece, prendono la politica come uno svago, simili a coloro che, non avendo niente di utile da fare in casa, passano la maggior parte del tempo in piazza, anche senza un motivo. Inoltre, poiché non hanno le idee chiare e stabili, coi loro continui ripensamenti finiscono per screditare l’attività politica, mentre chi si è dato alla politica dietro un preciso e convinto ragionamento, ritenendola la più nobile delle attività e la più adatta alla sua naturale inclinazione, non si pentirà mai di quella scelta e non andrà incontro a pentimenti o turbamenti di sorta. Vi sono anche di quelli che, smaniosi di popolarità e ammalati di protagonismo, affrontano gli avversari in pubblici dibattiti come se fossero attori di teatro, diventando così schiavi di coloro a cui credono di comandare e indisponendo quelli che vorrebbero compiacere.

La politica è l’espressione più alta della dialettica, che è propria dell’uomo e che costituisce la vera creazione di Dio: tutte le cose materiali, infatti, Dio le ha tratte dalla sua essenza stessa, l’energia nel suo stato sottile e invisibile che ci circonda (e dunque sono “cose di ordinaria amministrazione”), non “dal nulla”, come sostiene la Chiesa, interpretando erroneamente il “creò” con cui inizia la Genesi, perché il nulla non esiste poiché Dio è tutto e dovunque non c’è che Lui. Ma figurarsi se i nostri politici s’interessano di queste cose.

Ebbene, la base per una buona e retta politica, come dice Plutarco, è la filosofia, cioè lo studio degli aspetti fondamentali della vita, che attraverso l’analisi e la riflessione porta alla conoscenza dei princìpi e delle regole universali della realtà. L’attività politica che sia volta a soddisfare le aspirazioni più alte e più nobili dei cittadini non può prescindere da tale preparazione, ma non risulta, da come parlano, che almeno alcuni dei nostri politici abbiano studiato la filosofia, e se l’hanno studiata ai tempi della scuola poi l’hanno messa da parte, magari proprio perché convinti che la politica non abbia niente a che vedere con la filosofia.

Grande è il peso che può avere su chi governa la parola di un filosofo, il quale nella sua speculazione, che abbraccia la vita intera in tutte le sue forme e manifestazioni, medita pure sulla politica, anche se non necessariamente la pratica. Se oggi in molti casi la politica è diventata un’attività autonoma e lucrosa, uno strumento per l’acquisto e il mantenimento del potere, con tanto di tornaconto personale e di spregiudicatezza, ciò è dovuto al fatto che i politici, salvo rare eccezioni, non hanno una base filosofica, indispensabile per una politica corretta ed efficace. In Italia nemmeno i capi di Stato si adoperano per conciliare gli animi, anzi, spesso, lungi dal favorirlo, inaspriscono il dialogo, che dovrebbe essere pacato e all’insegna del rispetto reciproco, delle opinioni e della persona, che è la base di una vera democrazia, la premessa per una politica sana e costruttiva. Filosofia significa visione ampia e profonda delle cose, significa equilibrio, serenità e obiettività di giudizio, rispetto delle idee altrui, nella convinzione che, come ho accennato più sopra, la vita umana è un gioco dialettico, in cui le contrapposizioni sono necessarie alla conoscenza e al progresso della vita stessa.

Anche la morale è legata alla politica (André Malraux diceva che “non si fa politica con la morale, ma senza morale non se ne fa abbastanza”). A questo proposito Plutarco cita l’esempio del tribuno della plebe Livio Druso, il quale, essendosi un artigiano offerto, per cinque soli talenti, di orientare e disporre diversamente quelle parti della sua abitazione che erano esposte alla vista dei vicini, rispose: “Anzi, te ne darò dieci, se renderai trasparente tutta la mia casa, in modo che tutti i cittadini possano vedere come vivo!”.

Per Plutarco la politica non è disgiunta nemmeno dalla religione, intesa in senso lato, quale visione della vita e del mondo sotto un profilo sacro, perché il politico “è al servizio di Dio per il bene e la salvezza degli uomini, e per la conservazione di tutto ciò che di bello e di buono ci viene elargito da Lui”. Ci sono dei valori che solo da una dimensione più alta possono ricevere il crisma di una validità universale e assoluta, altrimenti si cade in un relativismo soggettivistico pericoloso in cui la vita e il mondo intero non hanno alcun senso. Tali valori sono la patria, la famiglia, la virtù, l’amore per il bene, l’altruismo, la fratellanza. Del resto anticamente i princìpi fondamentali della politica derivavano dalla teologia. La politica, infatti, ha o deve avere tra i suoi scopi non solo il benessere materiale dei cittadini ma anche la loro elevazione ad una visione più alta. Senza un modello, senza un punto di riferimento, eterno e universale, senza l’immagine o solo la speranza di un Dio, tutto crolla.

Fra i governanti e i politici in generale, dice ancora Plutarco, non mancano gli uomini incolti, i quali cercano di sottolineare il peso e la dignità della carica che rivestono facendo la voce grossa, assumendo uno sguardo severo, un atteggiamento scontroso e di superiorità. Solo la filosofia può salvare il politico incolto, il quale per esser tale è più pericoloso di quello colto, perché non ragiona, perché se arriva al potere è più facile che si monti la testa e faccia cose che “non deve fare”. L’ignoranza, infatti, una volta salita al potere, si fa arrogante, presuntuosa, al punto da ritenersi – lei che non ha nemmeno uno straccio di diploma – superiore e più vicina alla verità di chi invece ha una laurea, e magari due o tre (ma anche fra i laureati la presunzione ha molti discepoli, ed è maggiormente riprovevole). Il vero uomo colto non fa pesare il proprio sapere, non si considera unico depositario della verità, non insulta chi la pensa diversamente da lui, non dice “Sta’ zitto tu che non capisci niente”, “Io con te non ci parlo”, e così via. Questa è una forma di incultura che manifesta non solo un evidente disprezzo nei confronti degli avversari ma una intolleranza delle regole democratiche.

Chiara Lubich, docente e saggista italiana, fondatrice del Movimento dei Focolari, che aveva come obiettivo l’unità tra i popoli e la fraternità universale, diceva: “La scelta dell’impegno politico è un atto d’amore. I politici dell’unità comprendono che anche gli altri, chiamati ‘avversari’ (e magari odiati e insultati), possono avere compiuto la pro­pria scelta per amore. Quindi si interessano al destino dell’altro e la critica si fa costruttiva. Si cerca di praticare l’apparente paradosso di amare il partito altrui come il proprio, perché il bene del Paese ha bisogno dell’opera di tutti. Questa è la vera politica autorevole di cui ogni Paese ha bisogno. È questa la politica che costruisce opere che rimarranno. Le generazioni future non saranno grate ai politici per avere detenuto il potere, ma per come lo avranno gestito”.

In Italia una delle cause per cui non si riesce a fare una buona politica è la discordia, difficile da eliminarsi, perché uno dei difetti degli Italiani è la testardaggine, a cui si aggiunge, come conseguenza, la “memoria storica”, cioè il costante, ossessivo e sconvolgente ricordo di un passato che si dovrebbe invece seppellire e che impedisce al Paese di rinnovarsi e di crescere, di “farsi” e di diventare finalmente maturo, e, se possibile, saggio. Parafrasando Ennio Flaiano, possiamo dire che oggi in Italia (dopo settantacinque anni dalla caduta del Fascismo) gli italiani si dividono in fascisti e antifascisti, ma che molto spesso (se non sempre) gli antifascisti sono più fascisti dei fascisti.

Alla fine del Secondo conflitto mondiale si è riproposta, a parti rovesciate, la stessa situazione del primo dopoguerra (il primo odio non si scorda mai): i popoli degli altri paesi si sono subito riconciliati, la Spagna ha offerto un bell’esempio dopo la guerra civile onorandone indistintamente tutti i caduti e raccogliendo le loro spoglie in un unico sacrario. Noi, invece, siamo sempre in guerra. Già Dante definiva l’Italia “nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”, e invitava un imperatore straniero, Alberto d’Asburgo, a prenderne in mano le redini per eliminare le lotte interne che l’affliggevano (“vieni a veder la gente quanto s’ama!”), Niccolò Machiavelli si augurava anche lui l’intervento di un “principe”, nonostante si fosse formato nella scuola repubblicana, Ugo Foscolo scriveva: “Purtroppo noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degli italiani”, Massimo D’Azeglio diceva che “i più pericolosi nemici d’Italia sono gli Italiani”, Francesco Crispi lamentava l’impossibilità di costituire in Italia un governo qualsiasi a causa delle “risse fra i partiti”, della “disgregazione della compagine nazionale”, della “annebbiata coscienza dell’unità e della stessa ragion d’essere della patria”, Paolo Orano, riprendendo il giudizio di Friedrich Nietzsche sulle “anime belle” dei denigratori, scriveva: “A costoro, privati di ogni ragione di verità, disarmati dalla prova dei fatti e spogliati della loro mentita veste di apostoli e di eroi, non rimane per tutta arma che l’insulto, il dileggio, la canzonatura, il sarcasmo, con cui i diffamatori mirano ad abbassare alla loro sozzura coloro che sono in alto giudici fieri e sdegnosi di se stessi”.

Molti anni fa Giuseppe Longo in Arroganza del progresso, impotenza del potere, dopo avere lamentato l’inerzia della maggioranza parlamentare, dovuta all’accesso indiscriminato alla politica, che aveva accresciuto il deterioramento delle classi di governo, moltiplicato gli errori dei partiti e delle classi dirigenti, e generato compromessi e trasformismi, concludeva: “Tutto il sistema è in crisi e se non si comincia da qualche parte con coraggio ad affrontare la crisi per risolverla e non soltanto per arginarla, c’è il rischio di una catastrofe”. Per evitare la quale, commentava Giuseppe Prezzolini, “tutto dovrebbe essere permesso e si dovrebbe pensare, se mai, a gente nuova per farlo. Se una casa è minata e può da un momento all’altro crollare, non ci son che due vie: o la fuga, o il coraggio di andare a togliere alla mina l’innesco anche a costo di scassinare il portone d’ingresso”. Luigi Barzini chiudeva il discorso esclamando sconsolatamente: “Non c’è scampo!”.

Nella Introduzione al Commentariolum petitionis, in cui il fratello Quinto Tullio dà consigli a Cicerone per la campagna elettorale, Paolo Fedeli a “conclusione semiseria” scriveva: “Supponiamo che fra qualche millennio un paziente indagatore si trovi improvvisamente di fronte a due frammenti misteriosi e notando una qualche somiglianza fra loro sia stimolato ad approfondirne il confronto. Sul primo leggerà le seguenti parole: ‘Un senato-consulto ha dichiarato che pagare delle persone perché vadano incontro ai candidati, assoldarle perché li accompagnino, distribuire posti a tutti e offrire pranzi pubblici, tutto ciò costituisce una violazione della legge’. Nel secondo, invece, troverà questo testo: ‘È possibile che si debba tornare a votare, e la verifica dei voti potrebbe portare lo scompiglio anche in altri partiti. Certo è che la campagna elettorale è stata una battaglia senza esclusioni di colpi. I concorrenti non hanno esitato a usare armi come promesse di lavoro, buste con centinaia di migliaia di lire in contanti, buoni benzina. In giro per le mas­serie più povere un candidato è stato visto consegnare televisori a colori. Qualche volta si è parlato di minacce e di ricatti, di controllo scientifico dei voti. Qualche volta sono state attribuite a motivi elettorali misteriose aggressioni not­turne. Tutto per una manciata di voti. Ebbene”, concludeva Paolo Fedeli, “il paziente indagatore, di fronte a questi due frammenti (autentici: il secondo è riportato da un noto quotidiano italiano del 23 giugno 1987) riuscirà a capire che il primo si riferisce alle elezioni consolari romane del 63 a.C. e il secondo alle elezioni poli­tiche italiane di oltre duemila anni dopo?”.


di Mario Scaffidi Abbate