“La grande magia”: quando l’illusione ti rovina la vita

venerdì 27 dicembre 2019


Dove sta il trucco? Dentro di noi. La nostra psiche proietta, disintegra, deforma lo spazio e le relazioni a noi circostanti e lo fa in base a un paradossale movimento che, come quello dell’onda, è incessante e va avanti e indietro trasportato dal vettore dell’ossimoro di “illusione-realtà” costruito in base a gusci ideali sovrapposti ma in grado di scorrere l’uno sull’altro, in funzione di puntuali situazioni emotive e affettive. Per cui, vale sempre e comunque il detto shakespeariano “To be, or not to be”; del “Chi sono io realmente?”, perché si è sempre inseguiti e mortificati da una realtà caleidoscopica che per noi umani è sempre cangiante, abbagliante e sfuggente.

Una originale risposta a questo quesito esistenziale così fondamentale viene da un’opera assai poco rappresentata di Edoardo De Filippo, in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 5 gennaio 2020, dal titolo La Grande Magia, per la regia, scene e costumi di Lluís Pasqual. La trama è, in fondo, molto semplice: un mago illusionista di terz’ordine, Otto Marvuglia (Nando Paone) si presta al gioco del triangolo tra Marta (Angela De Matteo), moglie di Calogero Di Spelta (Claudio Di Palma) e l’amante di lei, favorendo con un espediente la fuga di questi ultimi due. La produzione è opera del Teatro Stabile Napoli.

Solo che, non potendo far riapparire la donna, sparita dietro un sarcofago a scomparto segreto, il sois-disant mago concentra tutta l’attenzione psichica di Calogero all’esterno di un involucro di una speciale scatola magica (vuota, naturalmente), da aprire solo se lui, il marito, è munito di una grandissima fede sulla riapparizione di lei, una volta sollevato il coperchio. La scatola diviene così una sorta di Stargate spazio-temporale con la transizione da una dimensione di realtà, che l’interessato si rifiuta di vedere (al contrario dei suoi parenti stretti, che conoscono perfettamente la tresca della loro cognata e nuora alle spalle di quell’ingenuo e gelosissimo marito ricco), ad un’altra perfettamente onirica in cui tutto è illusione, a partire dal cibo, dai bisogni corporali repressi, fino all’acquisto “immaginario” di alimenti che vengono pagati virtualmente ma con moneta vera a ipotetici ma concretissimi commercianti.

Ovvio che, gli unici a beneficiare di questo stato semi-catatonico di Calogero sono Marvuglia e sua moglie, assistente di scena, che spillano per anni soldi al poveretto loro vittima, senza che questi si renda mai minimamente conto dell’inganno di quella coppia di millantatori. Ma, ovviamente, la finzione non potrebbe reggere se anche le autorità deputate a investigare sul caso della scomparsa di Marta, in base all’iniziale denuncia di Calogero, non fosse messa riservatamente al corrente dal mago di come stiano effettivamente le cose.

In questo caso, ci dice Edoardo, non si capisce bene a chi, tra truffato e truffatori, convenga mantenere in piedi quella dolorosa finzione la cui rimozione dall’esterno rischia di far peggiorare ulteriormente le cose stimolando una pericolosa transizione da illusione a follia omicida. Finché la scatola resta chiusa, infatti, la ferita emotiva profonda del marito tradito resta aperta ma bendata, non manifestandosi mai a livello cosciente, perché se tutto è illusione, allora nulla è reale. Come non lo è per Calogero la riapparizione concreta dopo quattro anni della moglie pentita, che confessa al marito invecchiato e indementito il suo tradimento di allora, quando aveva scelto di fuggire con il suo amante. Così l’asset individuale aberrante della sopravvivenza a qualunque costo si salda alla negazione assoluta del principio di realtà che, invece, è sempre saldamente in possesso del mago e di sua moglie, veri interessati burattinai di una commedia senza lieto fine. Ma a loro due, in fondo, interessa solo il benessere finanziario che rappresenta la ricaduta avvelenata del sostegno da loro dato alla manutenzione dell’Illusione. Quella scatola che Calogero stringe al petto, come la lumaca che si rifugia nella sua chiocciolina, ne intrappola la psiche blindandola all’interno del sarcofago della Dea Illusione e rappresenta, in fondo, la sua dimora fiabesca costruita sullo scoglio della follia e che, se demolita, spingerebbe il derelitto dentro un mare in tempesta senza che lui sappia nuotare!

A fine spettacolo, una sacrosanta protesta sindacale e collettiva della compagnia teatrale, con gli attori che denunciano la morte del teatro dal vivo per inadempienze e colpevoli ritardi nell’onorare i relativi impegni finanziari da parte degli enti pubblici interessati. A parere di chi scrive, sarebbe meglio come soluzione alternativa trovare le giuste strade dell’azionariato popolare, rispondendo alla domanda: “Perché il canone Rai entra in bolletta, e l’arte scenica più antica del mondo invece no?”.


di Maurizio Bonanni