Non molto tempo fa, quando l’arte non era un gesto

giovedì 19 dicembre 2019


Paul Valery sosteneva che essere soli significa essere con sé, ma anche “sempre essere due”. I pittori sono davvero soli soltanto in due: quando il loro sguardo si fa paesaggio, o si riconosce in un volto ritratto, nelle semplici cose o frutti, inerti eppur vivi, di una natura morta. Ogni pittore sa trovare il proprio altro nel riflesso stesso del proprio sguardo sulle cose, che riesce a vedere come se fosse sempre la prima volta. Sotto questo profilo, anche la pittura è un’arte dialogica, dove però, come spiega Maurice MerleauPonty, “colui che vede può possedere il visibile solo se ne è posseduto”, che altrimenti rischia di scimmiottare il pensiero e la stessa visione.

Vedere è infatti “quella specie di pensiero che non ha bisogno di pensare per possedere il Wesen”, come ci ricorda Charles Baudelaire nel terzo dei suoi poemetti in prosa. Quando so vedere, le cose che vedo “pensano per mezzo mio; o io per mezzo loro (giacché nella grandezza della fantasticheria [rêverie], l’io rapidamente si dissolve)”; esse pensano, “ma musicalmente e pittoricamente, senza arguzie, senza sillogismi, senza deduzioni”.

Il dipingere può quindi rivelarsi un prolungamento dello sguardo che, come osserva ancora Merleau-Ponty, “c’insegna a vedere proprio perché s’installa e c’installa in un mondo di cui non abbiamo la chiave”, rivelandosi così “un organo dello spirito”, e non semplicemente “un mezzo di piacere”. Se concepita in questo modo, l’arte può realizzarsi in una sorta di “progresso immobile”, attraverso l’esercizio di quello “spirito di perfezione” – come lo definisce Georges Roditi – che rinunciando a fare della pittura, com’è spesso accaduto negli ultimi decenni, una sorta di sincretismo concettuale per immagini volto a rivelare o denunciare lo spirito del tempo, “promette di migliorare, non di avanzare”, con il muto affinarsi dello sguardo.

Non molto tempo fa, quando l’opera d’arte non era un gesto, né una provocazione, né un concetto, c’erano artisti che, anche in piccole città di provincia, erano capaci di produrre un proprio sguardo sul mondo e sulla vita, lasciandovi trasparire quello che non si confonde, ciò che sta raccolto, nudo con se stesso, solitario e nudo nell’intimità di ogni anima che non si lasci distrarre o abbacinare da specchi posticci e impropri.

Non molto tempo fa, scrivendo della pittura di sua moglie, Mari Di Vecchio Ardinghi, per il catalogo di una mostra a lei dedicata, Giuseppe Ardinghi ricordava come insieme avessero vissuto, specialmente dopo gli anni sessanta, quasi con un senso di colpa la mancanza di sintonia con i paradigmi estetici e stilistici alla moda, con quelle tendenze, “sorrette da linguaggi mutuati più dalla filosofia o dalla scienza che non dalla pratica del mestiere, atti a rivestire di significato anche il vuoto di una tela lasciata bianca”.

La mostra che è stata inaugurata a Lucca lo scorso sabato 14 dicembre è dedicata proprio a questi due coniugi e artisti di spessore inusuale, che non si sono lasciati sedurre da linguaggi eterogenei rispetto a quello proprio del dipingere. Durerà fino al 26 gennaio e intende valorizzare, come spiega la curatrice Alessandra Trabucchi, “un particolare momento della cultura lucchese che si colloca tra gli anni Trenta e il secondo dopoguerra del secolo scorso. Una porzione di storia riletta attraverso lo sguardo artistico della coppia di pittori.

È questo il periodo nel quale una serie di artisti e scrittori, e a volte anche le due cose insieme, nati intorno al 1910 e cresciuti a Lucca, trovano nello storico Caffè Di Simo, già Caselli, il luogo di incontro e di aggregazione, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. In ordine sparso, il gruppo lucchese di riferimento è formato da Guglielmo Petroni, Romeo Giovannini, Giuseppe Ardinghi, Marianna Di Vecchio (chiamata Mari dagli amici), Arrigo Benedetti, Gaetano Scapecchi, Leone Lorenzetti, Domenico Lazzareschi e Mario Tobino, lucchese d’adozione. Questi personaggi, ognuno con le proprie caratteristiche e al di fuori dalle ideologie dominanti, possedevano un’idea di cultura comune, di ricerca e di tensione etica ed esistenziale, capace di portarli alla ribalta sulla scena dell’ambiente intellettuale novecentesco”.

Il caffè di Simo, già Caselli, cui fa riferimento la curatrice era stato in precedenza frequentato da Giovanni Pascoli e Giacomo Puccini e per anni ha costituito un punto d’incontro tra artisti e scrittori. Oggi purtroppo è chiuso, così come da tempo è “chiusa”, nel senso che non viene più pubblicata, la Rassegna lucchese, una rivista culturale che aveva trovato nel gruppo di amici che frequentava lo stesso bar il nucleo portante dei suoi redattori e collaboratori. Proprio la valorizzazione e la riscoperta di quel clima culturale costituisce uno degli obiettivi dell’esposizione, che si propone anche di “restituire alla città il ruolo e il valore culturale di un periodo storico di grande importanza per Lucca, dove hanno vissuto parte della loro vita alcuni tra i principali intellettuali italiani che hanno contribuito alla definizione di valori e sentimenti della cultura del Novecento”.

La mostra comprende circa 90 opere sapientemente selezionate dalla curatrice, che è riuscita a evidenziare le caratteristiche salienti della poetica di questi coniugi artisti. La stessa Trabucchi, non ha mancato di osservare come, pur con i rispettivi tratti specifici, nell’ultimo periodo della loro vita – specialmente di fronte a certi soggetti, come le nature morte – il loro stile e il loro sguardo sulle cose si sia sempre più andato ravvicinando, fino quasi a rendersi indistinguibile. Entrambi sembrano infatti assecondare un suggerimento che Carlo Carrà aveva dato ai giovani artisti, e cioè di realizzare una pittura che ritornasse “alla realtà poetica, vale a dire a una realtà interiore”.

L’influenza di Carrà (che apprezzò molto alcuni loro dipinti) sulle rispettive opere è del resto facilmente rintracciabile lungo quasi tutto il loro percorso artistico, così come lo è quella di Rosai e di Soffici, sebbene nessuno dei due coniugi abbia altrettanto esplicitamente assecondato suggestioni metafisiche e si siano sempre mantenuti deliberatamente in una posizione di “retroguardia” rispetto a qualsiasi prestigiosa o influente corrente artistica, quasi temessero, o presentissero, che tutto quanto è “corrente”, o addirittura moda, potesse celare un aspetto insidioso e fuorviante.

Come nelle opere dei migliori ritrattisti, in quelle di Giuseppe Ardinghi l’originalità emerge solo dallo stato d’animo evocato dalla figura umana e propone un’emozione particolare: che in quel momento la persona ritratta sia esattamente ciò che è, coincida con il proprio destino, sia raccolta e sospesa intorno a una sua prospettiva interiore, in grado di segnarne, e quasi di anticiparne, l’intero tragitto umano. Ma tale affinità sospesa è colta anche nelle nature morte e nei paesaggi: anche qui, frutta, bottiglie, alberi e case sembrano possedere un loro sguardo, in grado di rivelare e sorprendere quello del pittore in quel momento come fosse l’attimo in cui si concentra il senso di un’esistenza.

La luce gioca poi nella sua arte un ruolo fondamentale: come ebbe a scrivere Lucia Toesca essa “è per Ardinghi una misurata protagonista, nel paesaggio reale e nel paesaggio dell’anima. In entrambi c’è il dinamismo tonale del colore che si schiarisce e si sfalda, che si spenge e ricade come nebbia, unendo cielo e terra, raggiungendo il tono poetico di una lauda francescana nei suoi accorati accenti”. Ciò che alla fine ne risulta “è una pittura di notevole trasparenza stilistica” che, come osservò Pier Carlo Santini, risulta “assolutamente estranea a suggestioni eterogenee, con qualche sporadica effusione, sempre però molto contenuta e controllata”. E si tratta, come scrisse Felice Del Beccaro, di un’effusione che sfocia spesso in poesia, nell’accento “profondamente umano in cui sono casualmente in gioco, secondo un rapporto dialettico, l’impulso fantastico e l’intelletto guardingo e moderatore”. Guardingo e rigoroso a un tempo perché, come aveva già notato il suo maestro Felice Carena durante gli anni di studio fiorentini, Giuseppe Ardinghi rifugge “da schemi facili e stilistici”, sapendo che il vero stile lo si può trovare solo “nella ricerca profonda della realtà”.

Questo rifuggire da facili schemi stilistici, da mode più o meno comode da assecondare è, come si è già sottolineato, un tratto essenziale della sua poetica che ha sempre condiviso con la moglie: risulta infatti evidente anche nell’opera di lei in cui – come osservò Carlo Carrà all’interno di un più articolato giudizio marcatamente positivo – “non vi è ombra di civetteria”. Mari Di Vecchio “dipinge così perché così ella sente – scriveva Irene Cattaneo Vigevano – spontaneamente nuova, ed è perciò che le sue figure hanno una plasticità sentita, i suoi colori una ricchezza e una succosità d’impasto rara, le sue nature morte una semplicità e una chiarezza che allieta”.

Questi requisiti essenziali e generali trovano riscontro – come giustamente osservava Alessandro Parronchi in una recensione del 1942 – particolarmente nei fiori: nei suoi dipinti che li raffigurano Mari ha infatti “avuto sempre l’abilità di togliere tutto il superfluo, di non arrestarsi mai a indicazioni piacevoli, arrivando così a una ‘stesura esemplare’, della quale gusterà tutto il pregio l’osservatore più intelligente”.

Sia Mari Di Vecchio sia Giuseppe Ardinghi avevano esposto alla Biennale di Venezia ed entrambi hanno ricevuto riconoscimenti all’estero in tempi in cui la critica d’arte aveva ben altro spessore di quella in auge oggi. Le nature morte della prima, i suoi vasi di fiori, o certi paesaggi, potrebbero stare accanto senza sfigurare ai più belli tra quelli prodotti negli ultimi due secoli; mentre il secondo era capace di passare da paesaggi altrettanto belli a ritratti che scavavano nell’anima fino a portare alla luce stati d’animo misteriosi e sommessi, capaci di pervadere lo spettatore, quasi d’ipnotizzarlo con maestria e discrezione.

Così come il poeta, anche il pittore, per perfezionare la sua opera, deve perfezionare la sua anima, perché in fondo in ogni arte si tratta di saper “coltivare il proprio giardino, di farne qualcosa, e non di cambiarlo con uno più grande”.  Al termine della visita a questa mostra, l’impressione è che Giuseppe e Mari Ardinghi non abbiano mai desistito dal coltivare il giardino della loro anima e che lo abbiano fatto influenzandosi a vicenda, spesso silenziosamente. Entrambi conoscevano l’arte sottile di accostarsi alla vita e alla poesia che può celarsi tra le sue pieghe più discrete, nei gesti più quotidiani, sapendo ogni volta cogliere l’emozione di un’attesa o una rivelazione silenziosa, che sarebbe una penosa omissione, per qualsiasi pittore, non cercare di sorprendere sul nascere e svelare.

Giuseppe Ardinghi e Mari Di Vecchio, L’ambiente artistico del Novecento a Lucca.


di Gustavo Micheletti