mercoledì 11 settembre 2019
Il saggio di Paolo Buchignani Ribelli d’Italia rivela le contiguità politiche che nel nostro recente passato hanno caratterizzato i rapporti tra le varie tipologie di ribellismo rivoluzionario di destra e di sinistra, fornendoci una chiave per comprendere meglio non solo la storia italiana nell’ultimo secolo e mezzo, ma anche gli scenari politici attuali.
La battaglia politica condotta da massimalisti e comunisti contro la componente riformista e socialdemocratica del socialismo italiano ha avuto un ruolo e un rilievo fondamentali per la successiva storia nazionale ed europea. Quando in Europa, all’inizio degli anni venti, i comunisti e i socialisti massimalisti volevano conquistare il potere con la violenza rivoluzionaria, i socialdemocratici e i socialisti riformisti, che i primi bollavano spesso come revisionisti o socialfascisti, accettavano la democrazia liberale e parlamentare. Ma se in Europa questi secondi ebbero ben presto la supremazia sui primi, questo non avvenne in Italia, né prima, né durante, né dopo il ventennio fascista. All’interno del Psi i massimalisti erano sempre stati in maggioranza e “la componente riformista di Turati e Matteotti uscirà soltanto nel 1922, alla vigilia della «marcia su Roma», troppo tardi per incidere positivamente sulla crisi politica e impedire l’avvento del fascismo”.
Il trattamento sprezzante riservato ai riformisti dalla componente maggioritaria e massimalista del Psi sarà adottato anche da Gramsci all’interno del suo partito: “I riformisti e gli opportunisti – scriveva su L’ordine nuovo – nonostante la loro pretenziosa fraseologia scientifica, sono completamente usciti dalla tradizione della dottrina marxista e rappresentano, nel campo della lotta operaia organizzata, un’infiltrazione di agenti ideologici del capitale”.
Le ideologie rivoluzionarie che costituiscono la matrice comune da cui, durante i primi decenni del Novecento, prenderanno spunto in Italia le posizioni politiche di comunisti e fascisti sono (oltre al già sedimentato pensiero di Mazzini, Marx, e poi Lenin e Bakunin) il pensiero e l’iniziativa politica di Alfredo Oriani, le opere di Gobetti, dei vociani e dei futuristi, dei sindacalisti rivoluzionari e dei socialisti massimalisti. Le loro analisi teoriche e i loro programmi politici dettero vita ad un humus culturale fecondo e inquieto, fervido di concezioni della società e della storia che hanno spesso diversi elementi in comune e che hanno anche reso possibili collaborazioni e amicizie tra personalità politiche assai diverse.
Il libro di Paolo Buchignani – docente di Storia Contemporanea presso l'Università per stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria - ha il grande merito di fornirci un quadro dettagliato di questi rapporti, evidenziando elementi utili, quando non decisivi, per un riesame critico di questo periodo storico, delle sue temperie culturali e dei legami ideologici che hanno caratterizzato i rapporti tra opposte formazioni di “rivoluzionari”, soffermandosi spesso su dettagli e aspetti poco noti anche ad appassionati lettori o studiosi di storia contemporanea.
Per fornire qualche esempio dei rapporti di contiguità tra concezioni della società apparentemente opposte, si potrebbe iniziare con l’epoca in cui Mussolini era ancora un giovane direttore dell’Avanti e di Utopia. A questa seconda rivista collaboravano anche Amedeo Bordiga e Angelo Tasca, che erano considerati, come lo stesso Mussolini, degli eretici. Del resto i comunisti, compreso Antonio Gramsci, condividono con “l’agitatore di Predappio” la comune discendenza da Oriani e dal sindacalismo rivoluzionario e mutuano anche da lui alcuni tratti significativi, quali “il giacobinismo, il volontarismo, le argomentazioni con le quali viene attaccato il Psi, tanto nella componente riformista (accusata di parlamentarismo, di gretto economicismo, di collusione con la borghesia) quanto in quella massimalista, a cui si imputa di predicare la rivoluzione, ma di essere incapace di farla, perché prigioniera, come i riformisti, della cultura positivistica, deterministica, borghese”.
Non deve quindi sorprendere anche la relazione contraria, e cioè che molti fascisti rivoluzionari abbiano simpatia per il comunismo e per Lenin, considerato “della stessa tempra di Mussolini”. Alcuni di quei giovani si erano formati nella Legione garibaldina, che era composta da sindacalisti e anarchici, e che per alcuni di loro, come Curzio Malaparte, era stata l’anticamera del fascismo.
La contiguità ideologica tra il comunismo e il fascismo, specialmente quello delle origini, può riscontrarsi anche durante gli anni trenta, quando “il partito comunista dichiara di far proprio […] il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori e invita il popolo e tutte le formazioni politiche a lottare uniti per la realizzazione di questo programma che il regime avrebbe disatteso e tradito”. Ancora in quegli anni, i comunisti si sentivano più vicini al fascismo di Sansepolcro che non alle posizioni dei giellisti, che erano considerate invece espressioni della piccola e media borghesia e spesso bollate come socialfasciste e revisioniste.
Questa relazione di contiguità ideologica non è dunque marginale, e può risultare paradossale solo in una ricostruzione superficiale. Essa rimarrà sempre viva, anche durante il secondo dopoguerra. Già nel 1945, Giancarlo Paietta, in un editoriale sull’Unità del 28 Ottobre, nel tentativo di reclutare nuove adesioni al partito parlava degli ex fascisti come di virtuali «compagni di lotta» da redimere attraverso il lavoro e l’impegno sociale, mentre cinque anni dopo, in occasione di un discorso che tenne al cinema Splendore di Roma, il 10 Dicembre del 1950, l’allora segretario della Fgci Enrico Berlinguer così si rivolgeva ai giovani reduci della Rsi: “Noi e voi siamo più vicini di quel che sembra. Questo qualcosa di comune che ci unisce vi è stato anche quando si combatteva al Nord. Ambedue lottiamo per l’Italia e le riforme sociali e non per i vecchi gerarchi riaffiorati o per la classe dirigente dc […]. Anche i giovani neofascisti, i quali sognano una grande Italia, sanno che tutte le vecchie classi dirigenti tradiscono ancora la gioventù. Questa classi dirigenti sono le uniche nemiche”.
Tra le fila degli ex fascisti i cosiddetti “fascisti rossi” costituirono poi una sorta di testa di ponte atta a favorire l’azione di recupero da parte del Pci di qualche consenso in quell’area politica. I “fascisti rossi” erano gli “eredi di quella componente movimentista del fascismo storico (rivoluzionario, totalitario, mussoliniano) che non rinnegano affatto. Il loro bersaglio polemico (anche nel periodo 1947-53, nel quale fiancheggiano il Pci) non è Mussolini, ma la borghesia capitalistica che “lo ha tradito” il 25 Luglio 1943, dopo aver insabbiato la rivoluzione fascista; quella stessa borghesia i cui referenti politici sono divenuti sia la dc e i partiti satelliti, sia il gruppo dirigente del Msi (restauratore, monarchico, filocapitalista, filoamericano) retaggio, ai loro occhi, del peggiore fascismo, quello conservatore e borghese”.
L’espressione, certo, potrebbe suonare per qualcuno quasi come un insulto, dato che in effetti costituisce, almeno in apparenza, un ossimoro, ma tale era l’appellativo che veniva usato, tra gli anni quaranta e cinquanta, dalla stampa governativa e di destra: “fascisti rossi”, ma anche “fascisti-comunisti”, “comun-fascisti”, “para-comunisti”, “cripto-comunisti”, “camicie nere di Togliatti”. Agli esordi della guerra fredda, nel clima della montante durissima contrapposizione tra comunisti e anticomunisti, sulle labbra di democristiani e missini, di liberali e socialdemocratici fiorivano i più fantasiosi epiteti all’indirizzo di quell’arrabbiata pattuglia di rivoluzionari mussoliniani che tra il 1947 e il 1953 operò attivamente a fianco del Pci. Essi, viceversa, si definivano “ex fascisti di sinistra della corrente di Pensiero Nazionale”.
Il loro capo era “uno scrittore e giornalista sassarese, nato a Usini nel 1899. Si chiamava Giovanni Antonio De Rosas, ma fin dagli venti, al tempo della collaborazione al quotidiano “L’Impero”, si firma come Stanis Ruinas, il dinamitardo pseudonimo col quale soltanto è noto e che ben si addice alla sua indole ribelle e ai suoi propositi sovversivi di “fascista rivoluzionario”. Nel 1947, dopo l’esperienza di Salò, fondò a Roma la rivista “Il pensiero Nazionale”, che divenne all’inizio degli anni cinquanta l’organo politico dei “fascisti rossi”: a questa, che venne finanziata dal Pci, collaborarono anche alcuni giovani provenienti dalla X Mas di Junio Valerio Borghese.
Se nei primi anni del dopoguerra si era creata in Italia una situazione favorevole all’avvicinamento di alcune frange del fascismo al partito comunista, questo era anche perché era sorto un clima politico che sembrava propizio alla rivoluzione. Una simile circostanza, tuttavia, invece di rallegrare Stalin e i dirigenti sovietici, li preoccupava non poco. Dopo la conferenza di Teheran, infatti, l’Italia era stata assegnata al blocco occidentale, e anche la famosa “Svolta di Salerno” di Togliatti deve essere letta in questo contesto. Quando Molotov lo incontrò alla vigilia del suo ritorno in Italia dalla Russia, gli impose “un rovesciamento della linea politica perseguita fino a quel momento: non promuovere l’insurrezione, ma impedirla, non chiedere l’abdicazione del re né le dimissioni del governo Badoglio, ma entrare a farne parte”.
Per il Migliore e il gruppo dirigente del Pci la meta finale rimarrà comunque la stessa: la realizzazione del regime comunista non solo attraverso la cosiddetta “democrazia progressiva” ma, se necessario, anche “attraverso urti violenti e anche armati”. Questa possibilità non verrà mai completamente esclusa non solo dal contesto generale della sinistra italiana, ma anche dagli organi dirigenti del Pci, almeno fino alla segreteria Berlinguer.
Anche il movimento protestatario del ‘68 dovrebbe essere ricondotto a questa circostanza storica, che fu rafforzata dalla critica totalizzante mossa alla società capitalistica dalla scuola di Francoforte. In particolare, come osserva Luciano Gallino – l’insistenza con cui Marcuse, ne L’uomo a una dimensione – si sofferma “sulla impossibilità di contrastare il sistema dominante con qualsiasi tipo di argomentazione” suggerì “indirettamente alla sinistra le strade della violenza”.
Come ebbe ad osservare Adriano Sofri, i militanti di Lotta Continua e di altri gruppi della sinistra extraparlamentare si riempivano la bocca di esortazioni alla violenza già molto prima della strage di Piazza Fontana del 12 Dicembre 1969: noi “eravamo soltanto epigoni di una lunghissima tradizione [di] cui il culto della violenza ribelle e liberatrice era una parte assolutamente essenziale […]. Un’idea della violenza come passaggio decisivo e costitutivo dell’uomo nuovo: la violenza emancipatrice, la violenza come levatrice della storia”.
Più in generale, l’idea che i livelli di alienazione prodotti dalla società capitalistica avessero reso parti considerevoli del proletariato, oltre che della piccola e media borghesia, sorde a ogni sorta di analisi critica verso il consumismo in cui queste classi erano ormai immerse fornirà a una parte della sinistra contestataria un alibi perfetto: là dove il capitalismo ha confiscato all’uomo reificato ogni forma di consapevolezza critica, solo la violenza potrà ridestarlo e permettergli di sottrarsi agli effetti di quel sordido ingranaggio di sfruttamento e consumo in cui è stato coinvolto e alienato.
(1. Continua)
di Gustavo Micheletti