lunedì 5 agosto 2019
Una sera d’estate in casa di amici, sul lungomare sciclitano, vedendo la luna piena, cominciò a declamare i versi di Giacomo Leopardi, tratti dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Sciorinò quel canto leopardiano con trasporto e sicurezza, non incespicò su alcun verso. Alberto Sironi, scomparso oggi a 79 anni, a poco meno di tre settimane dalla morte di Andrea Camilleri, non era solo il regista della fiction tivù del Commissario Montalbano, che lo aveva reso celebre all’Italia televisiva. Lui era tanto altro. Uomo colto e raffinato, fine intellettuale, persona affabile e disponibile. Mai protervo e scontroso. Il suo “feeling” con la Sicilia e la provincia di Ragusa nasce ed è fortificato anche per il suo carattere.
Diventa il “testimonial” d’eccellenza di un territorio che aveva preso a conoscere e ad amare, dopo averlo conosciuto da vicino grazie allo scenografo di Montalbano, Luciano Ricceri, che ne aveva fatto il set privilegiato della fiction. A parlare di Montalbano e dei set iblei era più lui che Luca Zingaretti, di solito più ritroso e riservato. Lui, non si tirava mai indietro quando c’era da promuovere il territorio ibleo. Sempre presente. Spicciola la sua filosofia: “Montalbano ha dato tanto a questa terra, ma anche questa terra ha dato molto a Montalbano”.
Non si sbagliava. Perché la resa di Ragusa sul piano turistico è dipesa dalla serie tivù, ma il paesaggio che fa da sfondo alla fiction è proprio quello ibleo. La bravura del Sironi regista è stata quella di introdurre un personaggio che nei romanzi di Camilleri non c’era: il paesaggio. Tanto da condizionare lo stesso scrittore che, dopo aver visto la fiction del Commissario Montalbano, nei nuovi romanzi cambiò pure l’ambientazione, finendo per tradire la “sua” Porto Empedocle con Ragusa.
Non faceva mistero del suo amore per Ragusa e la Sicilia. Così accettò di fare da “testimonial” per la settimana iblea in programma all’Expo 2015, rimarcando la forza “politica” di Montalbano, capace di ottenere risultati impensabili nei luoghi dove si girava. Come ad esempio piazze e centri storici che sono diventati “isole pedonali”. Perché, dopo la chiusura per esigenze cinematografiche e televisive, i sindaci si sono resi conto che valeva la pena mantenere quelle ordinanze, togliendo le automobili dalle piazze. Si era talmente commisurato nel ruolo di papà televisivo di Montalbano che non si stancava di ripetere e spiegare i motivi del successo anche al più sprovveduto e disattento interlocutore.
E aveva una spiegazione semplice, semplice: “Dopo tanti anni il commissario Montalbano esiste davvero per il pubblico. La gente lo può vedere, toccare e conoscere”. E lui, con la sua aria scanzonata, ma da collaudato attore, sapeva trasmettere perfettamente questa “presenza”. Non dimentichiamo che Sironi nasce prima di tutto in teatro: alla Scuola d’arte drammatica del Piccolo Teatro di Milano, guidata da Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Recita sul palco, come gli attori che avrebbe poi diretto. Ha recitato sul palco della vita e su un set privilegiato – come quello ibleo – sino all’ultimo. Senza temere mai il confronto col più popolare Luca Zingaretti, al quale ha ceduto inconsapevolmente, il “testimone” della regia. Ora, senza Sironi, il Commissario Montalbano torna ad essere solo finzione.
di Gianni Molè