venerdì 29 marzo 2019
Storie di Bulli e di Pupe. Rigorosamente minorenni e iscritti alla scuola media dell’obbligo. La storia, praticamente una sorta di congegno etico-artistico quasi perfetto, affrescata con la purezza pittorica di un Giotto e le volumetrie sincere e corpose del Masaccio nella “Cacciata di Adamo ed Eva”, è raccontata nel film “Bene, ma non benissimo” di Francesco Mandelli. Protagonisti due adolescenti “antisimmetrici” per cultura, carattere, censo e ceto. Lei, Candida (Francesca Giordano), una piccola e paffutella (ma non di meno bellissima nella sua disarmante solarità e simpatia), meridionale di Terrasini, paesino sul mare in provincia di Palermo, orfana di madre con un padre accudente per quel che può ma sicuramente da proteggere secondo il mandato materno: “Non dargli angustie, sii obbediente e preparagli sempre il tortino di maccheroni come ti ho insegnato io”, le ripete lo spirito animato in effige della madre mentre figlia e marito visitano la sua tomba. Lui, Jacopo (Yan Shevchenko), profilo ieratico dello stereotipo slavo, magro e pallido nei suoi colori chiari, elegante e leggero nel moto rapido e circolare dell’axel semplice esibito sui pattini da ghiaccio. Jacopo è un bel ragazzino mutacico e un po’ autistico, ricchissimo e particolarmente colto per la sua età, appassionato della civiltà egizia e buon conoscitore del museo torinese che ne conserva parecchie migliaia di splendidi reperti.
Altre due forti antisimmetrie realizzano l’albero motore di un film che coltiva quasi scientificamente il paradosso per ottenere effetti di autentica commozione, grazie alla vittoria morale e dialettica del più debole sul più forte. Ed entrambi riguardano le coppie genitoriali, padri e madri dei due ragazzi. Da un lato, il padre di Candida, un vero talento di ironia, saggezza, fatalismo e rassegnazione al quale la giovanissima protagonista fa da perfetta spalla, avvolgendo i loro dialoghi in un humor all’inglese altrettanto dissacrante e delizioso. Lui, un salumiere cinquantenne rimasto disoccupato per l’avvento del solito iperstore che condanna all’estinzione i piccoli commerci, costretto dalla sua condizione indigente a emigrare dalla Sicilia a Torino per trovare lavoro, grazie ai buoni uffici del fratello che lavora in un ristorante dove padre e figlia trovano alloggio precario al piano superiore del magazzino, tra scatole giganti di pomodoro e scorte alimentari varie. Ed è proprio quel girato dall’alto, in un letto a una piazza e mezzo da dividere in due, che la bellezza estetica del film trova la sua massima realizzazione, tra precipitose alzate mattutine, dialoghi esilaranti e la voglia di restare a letto che ogni adolescente condivide con tutti gli altri suoi coetanei del resto del mondo.
L’altro, il suo antagonista socio-economico, è un ricchissimo commerciante torinese, per il quale il valore del denaro e la difesa a tutti i costi del proprio status è l’unica regola di vita in cui crede. L’ultima antisimmetria riguarda le due madri, opposte per segno estetico (bellissima la moglie del ricco, rotondetta e figlia del popolo la defunta la quale, però, è ben presente nelle proiezioni mentali della figlia che dialoga con lei come fosse un ologramma invisibile a tutti gli altri), ma coincidenti nei contenuti esclusivi del femmineo materno, che sa accogliere a braccia aperte il diverso da sé riconoscendo i bisogni profondi, affettivi e immateriali dei propri figli. Candida e Jacopo divengono compagni di scuola inseparabili che solo una sgradevole circostanza e il solito fraintendimento degli adulti costringerà a banchi separati nella stessa classe. Ma finché il dio Anubi li protegge, i due costituiscono un meraviglioso oggetto di purissima amicizia tanto solido e delicato da trasfigurare lo pseudo-autismo di Jacopo nel comportamento solare dei giochi classici tra adolescenti. E, poiché, secondo il motto del ‘68, “un sorriso vi seppellirà”, così tra musica rap, dramma e ironia i bulli perdono il loro “dolore dentro” e diventano amici di classe come tutti gli altri.
di Mau. Bona.