giovedì 30 novembre 2017
Una guerra mortale e quotidiana tra assassini, con lo Stato a fare da spettatore.
Il telespettatore italiano medio che assiste con periodicità annuale alle tanto di moda serie televisive su camorra e mafia è indotto a tifare per i boss. Questo perché nelle sceneggiature i componenti delle forze dell’ordine e persino i magistrati sembrano non trovare posto.
In “Gomorra”, che pure ha il marchio di Roberto Saviano anche nella sceneggiatura, la polizia, i carabinieri, la guardia di finanza e financo i pubblici ministeri hanno ruoli marginali. Nella terza serie, quarto episodio, si vede il suocero di Genny Savastano, teoricamente agli arresti domiciliari con tanto di braccialetto elettronico, che coordina le esecuzioni in prima persona.
Quanto a Ciro Di Marzio, supereroe negativo per antonomasia, lo troviamo in Bulgaria, dove impara non si sa come la lingua locale, partecipa al traffico di esseri umani e, quando gli vengono a noia, stermina i boss di Sofia che pure sono i suoi nuovi datori di lavoro. A un certo punto sente nostalgia del Vesuvio e passa come se niente fosse tra le frontiere di mezza Europa - peraltro le più sorvegliate, quelle della rotta balcanica - sempre armato e trasportando grandi quantitativi di droga e soldi. E la polizia e la tanto decantata lotta alla mafia? Soggetti buoni per una puntata di “Chi l’ha visto?”.
Eppure negli ultimi episodi della prima serie sembrava che Ciro potesse collaborare, in caso di grande pericolo, con un misterioso uomo dei servizi segreti che gli aveva dato il suo numero. Ma certi espedienti delle trame talvolta si perdono per strada. Per poi magari riemergere quando il regista, i produttori e gli sceneggiatori non sapranno più cosa inventarsi per giustificare l’ennesima serie.
Nella serie “Suburra”, che si ispira all’indagine denominata “Mafia Capitale”, tutto si svolge nel famigerato “Mondo di mezzo”. Per lo più popolato dai clan di Ostia, zingari mafiosi e il figlio di un poliziotto (ovviamente scemo e distratto) che diventa un killer spietato. Provocando indirettamente anche l’uccisione del padre. E che viene in tutta la prima serie coccolato dai colleghi del genitore che per ora nulla sospettano. Un ritratto demenziale delle forze dell’ordine.
Paradossalmente fa eccezione la Rai con i quattro episodi di “Sotto copertura, la cattura di Zagaria”. Cioè la vera storia del poliziotto Vittorio Pisani, il dirigente di polizia napoletano che mise le manette ai boss della camorra. E che per tutto ringraziamento per anni fu trattato e indagato dai magistrati come complice dei boss. E pensare che proprio su “Netflix” ma anche su “Sky” esiste un’infinità di altre serie, come “Narcos”, “El Chapo”, “Boardwalk Empire” e altre ancora, in cui, pur strizzando l’occhio alla vita spericolata dei narcotrafficanti, si riesce a rispettare la verità dei fatti. E a far risaltare gli investigatori, siano essi dell’Fbi, della Dea o della brigata del proibizionismo alcolico degli anni Trenta. Il tutto inquadrato nella esatta prospettiva storica. “Narcos”, ad esempio, ripercorre l’epopea politico-criminale di Pablo Escobar. Uomo molto popolare in Medellin. Un mito nell’intera Colombia dopo che si era addirittura offerto nel 1991 di saldare tutto il debito pubblico in cambio di protezione politica. Uno che si prestava moltissimo a venire idolatrato. Ma nella serie l’eroe positivo è, al contrario, l’agente Dea che lo ha ucciso. “Gomorra” prende spunto dall’omonimo libro di Saviano, che però ci mette solo il marchio oltre che le mani sulla sceneggiatura da “fanta camorra”. “Narcos” invece è fedele al libro “Killing Pablo” di Mark Bowden.
Prendiamo un altro prodotto che ha avuto successo in Messico: la serie “El Chapo”, dedicata alla saga di Joaquín Guzmán. Un boss che ha riempito di cadaveri il Messico e il Texas per anni. Anche in “El Chapo” sono sempre gli agenti della polizia, americana e messicana, a essere presentati allo spettatore come eroi braccati da un sistema spietato fatto di poliziotti corrotti, di infiltrati, di politici a libro paga. Lo spettatore è spinto a fare il tifo per i primi e mai per i secondi. Un capitolo televisivo della serie “El Chapo” s’intitola “El Kgb del cartel de Sinaloa”. Si racconta di un vero e proprio centro di ascolto al servizio dei trafficanti di droga. I quali tutto potevano sentire di quel dicevano gli affiliati così come i poliziotti corrotti a libro paga. Sentivano persino gli agenti Dea sotto copertura in Messico che rischiavano costantemente di venire uccisi. In pratica i loro cellulari erano stati hackerati. Va detto che la serie “El Chapo” è presa pari pari dalle memorie di un pentito del cartello di Sinaloa. Cioè l’ex responsabile per conto di Guzmán del settore sicurezza. Uno che si decise a collaborare quando capì, proprio da una telefonata da lui stesso intercettata, che sarebbe stato eliminato molto presto insieme a moglie e figli. Si tratta del “servizio completo” che la criminalità organizzata riserva in quasi tutto il mondo anche a chi è solo sospettato di avere rapporti con gli uomini della polizia.
Lo spettatore italiano può invece al massimo tifare per Ciro o per Genny. Ovviamente non è una critica moralistica. Il fatto che il ruolo della polizia non esista o quasi in queste ultime due serie sulla camorra e su “Mafia Capitale” pone soprattutto un problema di verosimiglianza e di credibilità grosso come una casa. Come se la maggior parte dei boss in Italia non si trovasse oggi a marcire al 41 bis. È l’altra faccia della medaglia di questa lotta alla mafia da talk-show, raccontata dai professionisti di sciasciana memoria. Che sono forse i veri orfani, mediatici, della morte del presunto “Capo dei capi”, Totò Riina.
di Rocco Schiavone