giovedì 17 novembre 2016
La Russia potrebbe conquistare il più inaspettato dei mercati, quello alimentare, conservato gelosamente come dagli italiani come proprio ed esclusivo, ed avventarsi sulla fetta di mercato più ghiotta, quella rivolta alle tante, variegate e contraddittorie esigenze femminili. Sottotono e sottovoce è apparso infatti nei supermercati italiani il kefir, latte fermentato della tradizione culinaria russa. Qualunque straniero abbia vissuto in Russia, si è fatto vezzo di bere questo quasi-yogurt densissimo, sentendosi conoscitore di una bevanda preclusa al mondo, tipica solo del “russkiy mir”.
Frutto dell’incontro di culture orientali e nordiche tra i tanti popoli russi, il kefir è stata la bevanda della mattina, unico antidoto capace di stabilizzare la testa dolorante dopo la sbornia di vodka della sera prima. Ed anche l’ultimo drink della giornata più casalinga, il litro del liquido verde chiaro da bere tutto e d’un fiato, segreto di giovinezza e salute. Dal Medio Oriente turco la bevanda keif (sentirsi bene) giunse in quello caucasico ed i russi per ottenerne la ricetta combatterono con i ceceni, sacrificando la bella intermediaria, Irina Sakharova (zuccherosa), rapita con classica fuitina dal principe Bek-Mirza Barchorov. Non si erano accorti che anche i tanti e diversi tartari musulmani tra steppa e Urali conoscevano il latte alcoolico, considerandolo un regalo di Maometto ai sunniti, come racconta Marco Polo. Lo avevano tratto dall’ayran acido e schiumoso, frutto di fermentazione congiunta di latte e carne di montone o di agnello. Agli inizi del secolo scorso, inteso come medicina antitubercolosi dopo gli studi del premio Nobel Il'ja Il'ič Mečnikov e poi soprattutto dagli anni Trenta, il kefir divenne patrimonio del mondo che parla russo.
Tutti i batteri sorridenti, i “bifidi”, gli “jocchi” ed i “philadelfi”, i “delattosati”, i toccasana che devono assorbire acqua e cellulite, rilasciare acqua e pelle di seta, coniugare le diete “citrodee” con la stitichezza, tutti gli intrugli lattiero caseari, cui il mondo femminile si volge come al miracolo per essere sempre magro, bello e giovane, sono nipotini handicappati del kefir. Il quale, a sua volta, nei grandi allevamenti di capre, montoni e vacche, tra caucasici e tartari, teli di cotone e sacchi dove versare continuamente latte fresco, in una sorta di samovar latteo, ha un carattere invece prettamente maschile essendo l’unico alcool caseario, tanto che il palato italiano vi trova il gusto finale di prosecco. Né la Russia né l’Italia si sono accorte dell’arrivo del kefir, distribuito da supermarket tedeschi quando prodotto in Austria, oppure dalla grande distribuzione organizzata francese se prodotto in Cechia/Boemia. Viene proposto anche da aziende italiane ma fondamentalmente localmente o via e-commerce. La marca recita latte di kefir ed è già un errore perché il kefir è kefir, eventualmente latte di kefiran, “il miglio del Profeta” (associazione polisaccaride, di granuli di batteri mesofili vivi e lieviti). Latte alcoolico, arriva sottovoce per la domanda dell’immigrazione delle mogli russe e degli ucraini occidentali. Arriva senza il mito, il simbolo, la suggestione e la filosofia di vita che sottintende, in tristi bottigliette giocattolo di plastica e non nelle grandi bottiglie di vetro a bocca larga della tradizione sovietica. Eppure la Russia profonda è qui tra noi nella quotidianità, con il kefir. In attesa restano smetana, kvas, mors, uksus, plov e tutto quanto America, Cina e Giappone non abbiano conosciuto e diffuso.
di Giuseppe Mele