Mar del Plata, a teatro il regime argentino

venerdì 4 novembre 2016


La generazione argentina decimata dai generali ritrova voce in “Mar del Plata – Gli angeli del rugby”, prima romanzo, poi spettacolo teatrale con dieci attori ora al Teatro Vittoria a Roma (fino al 13 novembre, la prima di varie tappe italiane lungo tre mesi). All’autore Claudio Fava - figlio del giornalista Pippo, assassinato dalla Mafia nel 1984 e sul quale ha portato in scena “Nel nome del padre” - rivolgiamo alcune domande.

Come descriverebbe questa vicenda?

I ragazzi di una squadra di rugby vivono abbastanza distratti e distanti da quello che sta accadendo nel Paese, anche perché non subito si ebbe consapavolezza di cosa avesse rappresentato quel colpo di Stato. E loro, inconsapevoli come tanti altri, pensavano che giocare e vivere in quella bolla che li garantiva fosse la soluzione alla fatica dell’Argentina degli anni Settanta. Così non era, e se ne accorgono quando il primo di loro, un 16enne, viene ripescato dal fiume con le mani legate dietro la schiena e un foro in testa. Da qui comincia una sfida silenziosa contro il regime, la risposta del quale è la più violenta che si possa immaginare perché, se un gruppo di ragazzi dovesse dimostrare di essere più forte della giunta militare, verrebbe meno il mito di onnipotenza. Quindi saranno eliminati uno per uno e, al tempo stesso, loro scelgono di portare a termine il campionato, perché è l’unica risorsa che hanno.

In che modo?

Tutto comincia con un minuto di silenzio per il loro primo compagno ucciso, e senza che nessuno se lo dica, quel minuto si moltiplica fino a dieci, in uno stadio ammutolito. Tutti fermi: i giocatori di entrambe le squadre, l’arbitro, il pubblico. Quando la notizia arriva nelle sale dei generali, viene presa come una dichiarazione di guerra. Di loro ne sopravvivrà soltanto uno, il capitano. Ed è una storia vera.

Come è venuto a conoscenza di questa tragedia, e su quali materiali ha lavorato?

In Argentina, che da giornalista ho battuto piuttosto in profondità per più di 15 anni, come tutta l’America Latina. Molte storie straordinarie di quel Continente ti vengono incontro senza che tu le debba inseguire. Nel Paese dei 30mila “desaparecidos” di vicende come questa ce ne sono tante, questa è arrivata perché ha camminato sulle gambe dell’unico superstite, Raul Barandiaran, mio coetaneo. L’ho conosciuto, e un po’ attraverso lui, un po’ con le testimonianze e un po’ anche provando a immaginare e ricostruire pensieri e gesti di questi ragazzi è venuto fuori il testo.

Quale è stato il lavoro per arrivare alla scrittura, anche per universalizzarla?

Ho drammatizzato la storia entrando dentro la vita di questi ragazzi, raccontando la normalità della loro ribellione, la dimensione dell’avere vent’anni, che è la più imperdonabile delle bestemmie per un regime militare: non sa quello che loro pensano, e questo lo fa impazzire. È una storia senza tempo, perché succede nell’Argentina del 1978 e potrebbe essere una storia palermitana della stagione delle stragi, con i giovani della scorta di Falcone e Borsellino che hanno lo stesso sentimento elementare della propria dignità.

Differenze tra romanzo e messinscena?

Il libro è stato scritto immaginando già una drammaturgia teatrale, cinematografica, per cui i dialoghi sono molto importanti. Lo spettacolo ha voluto lavorare soprattutto su alcune maschere, straordinarie e terribili, come quella del colonnello, l’anima nera che poi è soltanto un poveraccio prestato alle miserie del regime, che ha pensato di riscattare la propria mediocrità diventando più aguzzino degli altri. Attraverso questo racconto è come se riuscissimo a metterlo a nudo. Ed è il lavoro che bisognerebbe sempre fare con i rappresentanti di un potere che si immagina intoccabile: li spogli e sono miseria, e quella miseria ti permette anche di dire la tua, farti valere, mettere in discussione quell’ordine costituito. Perché hai di fronte una persona vigliacca, che decide che la menzogna è lo strumento del potere, e piegare la disobbedienza con un colpo alla nuca è l’unico strumento che ha.

L’Argentina ha fatto patrimonio di questi trascorsi?

Penso stia facendo i conti con il proprio passato lentamente, faticosamente, perché è ingombrante, non soltanto per la quantità dei morti ma anche dei colpevoli. Un po’ di ammiragli sono stati condannati all’ergastolo, ma dietro di loro c’è la linea di comando: ufficiali, sottufficiali, miliziani e bande armate, che al servizio del regime erano tante. Quindi deve fare anche i conti con l’impunità e qualcosa di ancora più terribile, e cioè il fatto che non ci siano i morti da piangere: “desaparecido” vuol dire che non c’è un cadavere, un funerale, una tomba, e soprattutto c’è sempre la speranza che prima o poi la persona scomparsa possa tornare. Seppellire i morti è il primo rimedio per poter superare la fatica del lutto, e in questo il regime è stato di micidiale, incredibile intelligenza: come ci racconta Antigone, togliere il diritto alla sepoltura è un modo per negare quello all’oblio e conservare aperta, purulenta, la ferita della violenza subìta.

(*) Per info e biglietti: Teatro Vittoria


di Federico Raponi