“Café Society”, Allen e gli anni Trenta

giovedì 6 ottobre 2016


Come si dice, un film “dovizioso”? Lo è per esempio “Café Society”, l’ultimo nato dalla macchina da presa digitale di Woody Allen. Si lascia vedere ma non travolge. Ha un gusto rétro dolce-amaro, ma né l’uno né l’altro dei due componenti sa veramente di esistere. Si tiene, invece, una certa sezione della testa ebraica, dei suoi modi di ragionare, dei suoi schemi mentali. Il pensare che tutto sia Giusto o Ingiusto solo perché lo dice la Regola, il Libro, il Talmud. L’essersi separato da una moglie dopo venticinque anni (capita a zio Phil, il fratello di Rose, l’anziana madre del protagonista) per una segretaria di altrettanti anni più giovane, è grande scandalo e peccato. Ma riscuotere pacchi di denaro dal figlio maggiore, avviato a una gloriosa carriera da gangster newyorkese, quello si può: basta essere convinti che il proprio pargolo se lo stia guadagnando onestamente, quel denaro. Solo uno scalcinato filosofo male in arnese, Steve (Paul Schneider), il marito della sorella Evelyn Dorfman (Sari Lennick) è quel bambino che grida “Il Re è nudo!”. Troppo tardi, perché il cemento delle gang ha fatto già sparire gli indesiderati all’interno delle opere provvisorie di cantieri edili.

La storia è molto banale, in fondo, tenuto conto che tutta la sagra coinvolge la famiglia Dorfman di ebrei newyorkesi, molto sensibili al denaro e assai poco praticanti. Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg), il fratello minore del gangster Ben Dorfman (Corey Stoll) viene spedito dalla madre Rose Dorfman (Jeannie Berlin) a Los Angeles dove sta avendo un grandioso successo il fratello più giovane di Rose: Phil Stern (Steve Carell), noto agente cinematografico che cura gli interessi dei più grandi artisti del cinema dell’epoca. Ambientato alla fine degli anni Trenta, il film non restituisce nemmeno la più pallida idea di che cosa stia accadendo agli ebrei in Germania, dove Hitler ha preso legittimamente il potere e la “Kristall Nacht” si è scatenata già da un pezzo. Nulla. Silenzio assoluto. Solo feste e cotillon. Quelle infinite di zio Phil che, giustamente, ci campa e poi dello stesso Bobby, che assieme al fratello Ben apre il “Café Society”. Il locale diviene fucina e condimento di tutte le razze politico-mafiose-affaristiche che se la facevano d’amore e d’accordo nella Grande Mela dell’epoca, ritrovandosi nei locali più “In” circondati da eserciti di bellissime donne, il tutto annegato in fiumi di champagne.

Bobby si innamora perdutamente di Veronica “Vonnie” Sybil (Kristen Stewart) segretaria-amante segreta di zio Phil che ha promesso di sposarla, tirando però la cosa alle lunghe, non avendo il coraggio di dire la verità a sua moglie. Finisce come deve finire. Vonnie con Bobby fa la finta essenzialista, colei cioè che ama la natura, le cose semplici e non il mondo patinato del suo datore di lavoro, malgrado in quel mondo lei sia costretta a lavorarci. Il suo cuore, così, è perfettamente diviso in due. Da un lato l’uomo maturo e irresistibilmente affascinante, che frequenta ville hollywoodiane - come quelle stupenda di Gropius o quelle più pacchiane, neoclassicheggianti - dall’altro lo scalcinato Bobby che vuole andare a vivere con lei al Greenwich Village di New York, per un amore tutto “Pane e Vino”. Finisce che lei sposa il lusso e la bella vita e lui un’altra Veronica, se possibile ancora più bella di Vonnie, dalla quale ha due figli (che non vediamo mai).

Intanto, la morale è che le prostitute ebree neofite alle prime armi non vanno deflorate, malgrado siano assai consenzienti. Poi, suvvia, un gangster ebreo non può morire (come stramerita) sulla sedia elettrica. No: meglio che, prima dell’esecuzione, si converta in carcere al cristianesimo, dottrina di illusi che credono nell’aldilà. Poi, il re-incontro “rato e non consumato” tra un Bobby ricco e famoso e Vonnie, l’ereditiera delle fortune del marito Phil. Finisce con i sogni che citano se stessi, nell’ultima inquadratura puritana e nostalgica. Magnifica la fotografia dell’italiano Vittorio Storaro, premio Oscar. Molta parte del giudizio positivo della critica si deve a lui e alle sue davvero straordinarie atmosfere. In conclusione, il film sembra dirci: “Vorrei essere un capolavoro, ma non posso”. Perché manca il vettore emozionale: quello permeato di simbolismo e di extradetto perché intraducibile; che ragiona su sfumature ed espressioni conturbanti dei visi; che sa capire ed esprimere dolore e sofferenza. Un Allen appena un po’ meglio del solito, meno creatura psicanalitica e più carnale.


di Maurizio Bonanni