Integrazione ai tempi dell’Impero Romano

giovedì 21 luglio 2016


Quando si discute – e lo si fa spesso – di accoglienza degli extracomunitari (e quanto e come accoglierli), spesso intellettuali della sinistra al caviale tirano fuori le capacità integratrici dei Romani. Si nota come, per la maggior parte dei suddetti, la questione sia, per così dire, poco familiare: citano solo Caracalla e il suo editto di concessione della cittadinanza a tutti i sudditi residenti nell’Impero. E giù anatemi a chi non vuole concedere la cittadinanza ai migranti come fece l’imperatore ai sudditi. Non considerano però che, secondo la cronologia comunemente accettata, l’Impero si fa decorrere dalla battaglia di Azio (31 a.C.), quando l’editto di Caracalla è del 212 d.C.. Tra la fondazione dell’Impero e la concessione della cittadinanza a tutti i sudditi passarono quasi due secoli e mezzo; la prospettiva è così a lungo termine che sicuramente se, praticata oggi, non interesserebbe ai migranti ma tutt’al più ai loro bis-nipoti, e forse neppure agli intellos ricordati.

È quindi opportuna la lettura di questo agile libro di Giuseppe Valditara, “L’Impero Romano distrutto dagli immigrati” (supplemento a “Il Giornale” pp. 48, € 2,50), che riprende l’esposizione e spiegazione della capacità integratrice dei Romani esposta da Tacito negli Annales, quando riporta il discorso dell’imperatore Claudio per l’ammissione al Senato dei maggiorenti Galli. Come scrive Valditara, “le origini di Roma sono caratterizzate da due elementi apparentemente contrapposti: una straordinaria apertura e capacità di integrazione e il simbolo per eccellenza della chiusura: le mura”, onde “la solidità di una civitas presuppone una chiara concezione di identità e alterità”; e “la grandezza di Roma sta nell’aver saputo integrare e amalgamare popoli fra di loro molto diversi, traendo sempre dalle commistioni influssi benefici. Ancora una volta con pragmatismo e concretezza”.

Questa capacità d’integrazione, di assimilazione e di assorbimento si fondava su determinati presupposti: in primo luogo la gradualità nell’accoglimento. I popoli integrati “prima devono assorbire i valori di Roma, possibilmente attraverso un sistema di alleanze che inglobava i socii nell’orbe romano”; mentre “estranea a Roma fu sempre, come si è detto, l’idea razziale”. “Il risultato di questa politica di apertura... fu infatti che i discendenti di coloro che erano stati accolti in seno alla città non erano secondi ai vecchi cittadini per amore verso la patria”.

Ma l’accoglienza era questione di merito e non era un diritto dello straniero. Così un sistema per ottenere la cittadinanza era prestare il servizio militare, ma “la concessione della cittadinanza ai militari stranieri dei corpi ausiliari avveniva dopo ben 25 anni di onorato servizio”. L’accesso alla cittadinanza era concesso in base ai parametri della gradualità e della convenienza. Ma, di converso, per chi non se la meritava erano praticate misure di espulsione; sempre in base a valutazioni concrete e realistiche.

Tutto il contrario di quanto vorrebbero fare i buonisti nostrani per i quali immigrare è un diritto, la cittadinanza pure e per ottenerla, per i più, sarebbe sufficiente lavorare qualche anno in Italia. Cioè un diritto alla cittadinanza fondato su presupposti economico- morali e non politici e concreti; su aspirazioni ideali e non su fatti. Tutto il contrario di quello che praticavano i Romani, Caracalla compreso.


di Teodoro Klitsche de la Grange