La lezione attualissima di Luigi Einaudi

mercoledì 20 luglio 2016


Col titolo “Libertà economiche” (volume II) l’editore Libro Aperto pubblica una raccolta di discorsi pronunciati da Luigi Einaudi alla Consulta nazionale nel 1945-’46, in commissione e in aula, incentrati su temi economici. Il libro (pagine 220, 15 euro) è curato da Marco Bertoncini e Aldo G. Ricci, con postfazioni di Roberto Einaudi e Corrado Sforza Fogliani. Per concessione dell’editore, riproduciamo questa seconda postfazione.

Il tema tributario è sempre stato molto caro a Luigi Einaudi, cui va il merito di averlo trattato con quella chiarezza perspicua da tutti ammirata nelle sue “Lezioni di scienza delle finanze”. Più volte, sia nei discorsi alla Consulta sia negli interventi come governatore della Banca d’Italia, egli ritorna a occuparsene, con suggerimenti, proposte, osservazioni, critiche, che serbano una profonda attualità.

Pensiamo a queste poche parole: “Uno dei maggiori flagelli è proprio quello della molteplicità delle imposte. Volendo aumentare il gettito delle imposte, bisognerebbe, invece di introdurre nuove imposte, abolirne almeno una metà, di modo che il restante frutterebbe più di quanto non possa fruttare l’intero sistema”. È un invito, per nulla accolto né nell’immediato dopoguerra quando Einaudi parlava né successivamente e meno che mai negli ultimi anni, a semplificare il quadro tributario. Non è la molteplicità delle imposte a incrementare il gettito globale, perché ciascun tributo ha un proprio costo e perché la complicazione scoraggia e danneggia il contribuente.

Simile e altrettanto perfetta è quest’altra osservazione: l’imposta consiste spesso in un aumento di aliquote di imposte già esistenti, “ma, più si aumentano le aliquote e meno le imposte rendono; per ottenere il rendimento bisogna invece diminuire le aliquote”. Gli enti locali hanno costantemente seguito la strada condannata da Einaudi: partiti da un’aliquota, l’hanno fatta crescere, sovente con inusitata celerità, fino al massimo di legge. Ovviamente maggiore è il carico fiscale, più giustificata agli occhi del contribuente diventa l’evasione. Einaudi non scagiona il mancato pagamento delle tasse, ma comprende quando la situazione – creata dallo Stato, non dal cittadino – porta il contribuente a non compiere il proprio dovere civico. Più volte egli insiste sull’obbligo, per il legislatore come per l’uomo di governo, di non mettere il cittadino in condizioni tali da violare la legge, di sentirsi cioè scagionato per l’inosservanza. È un richiamo alla responsabilità di chi detiene il potere perché usi ragionevolezza, buon senso, giusto mezzo, cautela, insomma si erga a strumento del “buongoverno”.

Da meditare sono pure alcune riflessioni sull’imposizione municipale. “Esiste un legame diretto e logico fra i servizi resi dal Comune e le manifestazioni della ricchezza e della spesa; di tale legame si cerca da tempo di tener conto con le due imposte alternative sul valore locativo e di famiglia, che hanno il difetto, la prima, di assumere come base di tassazione uno degli elementi che è indizio di ricchezza e di spesa, la manifestazione forse più morale della spesa complessiva del contribuente; e la seconda di essere un ibrido compromesso fra l’imposta complementare sul reddito e un’imposta indiziaria sulla ricchezza”.

Il riferimento ai servizi locali è ritornato alla luce da pochi anni, quando si sarebbe voluta introdurre una tassa commisurata ai servizi resi agli utilizzatori locali e invece si è improvvidamente fatto ricorso a una nuova patrimoniale, quale si è rivelata subito essere la Tasi. È passato ben più di mezzo secolo dalle riflessioni einaudiane, ma occorrerebbe rileggerle per tradurle in pratica, evitando quegli ideologismi che al sano realismo di Einaudi – politico, studioso, storico, banchiere, docente, scrittore – ripugnavano. Altrettanto va detto per “la mancanza di giustizia” lamentata nel nostro sistema tributario. “Non esistono organi giudiziari i quali consentano di affermare, in piena coscienza, che siano giuste le decisioni alle quali sono arrivate le commissioni comunali, provinciali o centrali, perché non sono composte da magistrati indipendenti, ma da membri nominati da una delle due parti, cioè dalla finanza, che vuole avere la sua quota di quei determinati beni. Questa è una delle sciagure del nostro sistema tributario ed uno dei fattori dello scarso gettito delle imposte. Occorre la consapevolezza che queste siano distribuite con giustizia, anche riguardo all’accertamento dell’imponibile. Dalla mancanza di questa consapevolezza è derivato l’andazzo generale in tutta l’Italia di contrattare in materia tributaria”.

Quando Einaudi lamentava quest’assenza della giustizia tributaria, ancora vigeva lo Statuto albertino e l’istituzione era monarchica. Trascorsi quasi settant’anni dalla Costituzione e dalla Repubblica, lamentiamo la stessa, permanente carenza. Non è consentito al contribuente impugnare nel merito il classamento catastale; le commissioni censuarie sovrabbondano di membri designati dagli enti tassatori (Agenzia delle entrate e Comuni), proprio rappresentanti di quella parte che, come ben dice Einaudi, “vuole avere la sua quota”. Continua la lamentata “mancanza di giustizia”.


di Corrado Sforza Fogliani