sabato 16 luglio 2016
Il professor Paolo Ungari fu presidente della Commissione dei diritti dell’uomo della Presidenza del Consiglio, nonché membro della direzione nazionale del partito repubblicano, partito nel quale aveva militato dopo essere stato anche membro del partito radicale. La sua carriera accademica lo aveva portato a ricoprire l’incarico di preside della facoltà di Scienze politiche della Luiss e ad avere ruoli di primo piano in organismi impegnati sul fronte dei diritti umani.
Era molto apprezzato dai presidenti laici Giovanni Spadolini e Bettino Craxi, che non mancavano di consultarlo ogni volta che se ne presentasse l’occasione. In particolare, il presidente Craxi si avvalse del bagaglio di conoscenze di Ungari per impostare una politica estera molto attenta alla tutela dei diritti umani, soprattutto in Medio Oriente e Africa. L’incarico che Ungari ricopriva come presidente della Commissione dei diritti dell’uomo non era meramente onorifico o accademico, ma aveva forti implicazioni economiche. Difatti, prima di procedere alla elargizione di aiuti ai paesi meno sviluppati, la Presidenza chiedeva notizie alla Commissione sul rispetto dei diritti umani da parte dello stato beneficiario. E non è detto che le informative fossero sempre favorevoli. I diritti dell’uomo erano la vera ossessione di Ungari e non era tenero neppure nei confronti dell’Italia e di una certa magistratura responsabile delle numerose condanne subite dal nostro paese in sede internazionale. Conobbi Ungari in Francia nel 1988, dove mi trovavo come borsista del governo francese per condurre una serie di studi sul tema dei diritti umani, in occasione del bicentenario della Rivoluzione. La passione con la quale trattava l’argomento era encomiabile. Tutt’altra cosa rispetto ai freddi giuristi che allora bazzicavano i tribunali o le corti di giustizia internazionali. Anche la sua iniziazione alla massoneria, della quale non faceva mistero, credo che fosse ispirata da un genuino ideale di “fratellanza universale”, oltre che da una tradizione famigliare trasmessagli dal padre Mario.
Successivamente all’incontro in Francia, mantenemmo saltuari contatti. Dopo una lezione alla scuola del ministero dell’Interno, mi invitò a pranzo e la cosa mi inorgoglì molto. Parlò quasi sempre lui e mi accennò ai suoi progetti, fra i quali vi era l’istituzione di un osservatorio internazionale sui diritti umani. A suo avviso, l’occidente doveva prestare maggiore attenzione nei confronti dei diritti calpestati nel mondo islamico, sui quali si preferiva troppo spesso tacere per ovvi motivi economici. Su questo tema, che gli stava molto a cuore, tornò anche in occasione di successivi incontri e lo ribadì con forza durante un convegno organizzato a Sanremo, al quale presi parte dietro suo invito. Lui, che era una persona particolarmente mite, direi quasi dimessa, mostrò in tale occasione una determinazione che mi colpì molto. Dal mio punto di vista non sarebbe stato però facile ficcare il naso all’interno dei paesi arabi, soprattutto di quelli che disattendevano anche i più elementari diritti umani. In seguito venni a conoscenza del fatto che Ungari era in contatto a Roma con alcuni profughi iraniani. Fra questi spiccava Mohammed Hossein Naghdi, esponente del Consiglio nazionale della resistenza iraniana in Italia. Naghdi venne però assassinato nella capitale il 16 marzo 1993. Ungari rimase molto scosso per l’omicidio di Naghdi, avvenuto a pochi passi dalla sede del Consiglio nazionale della resistenza iraniana. Naghdi era diventato per Ungari un amico e ritengo non fosse estraneo alla sua idea di occuparsi dei diritti umani nei paesi islamici.
L’amicizia è comprovata anche dal fatto che Ungari partecipò negli anni successivi alle commemorazioni in ricordo di Naghdi organizzate dagli esuli iraniani a Roma. L’omicidio di Naghdi fu un delitto politico ideato e attuato nell’ambito di un più vasto progetto inteso a eliminare la resistenza degli oppositori al regime iraniano degli ayatollah. Nell’inchiesta giudiziaria condotta dal Pubblico ministero Franco Ionta emersero le responsabilità di esponenti del regime di Teheran. Tuttavia, per la professionalità con cui era stata pianificata e portata a termine l’esecuzione di Naghdi, non fu possibile acquisire elementi idonei a costituire prove certe. La sentenza della Corte di assise di Roma, che permise di ricostruire il quadro politico all’interno del quale era maturata l’eliminazione di Naghdi, lascia pochi dubbi sui mandanti e, del resto, l’eliminazione del rappresentante della resistenza in Italia era stata accolta con favore da alcuni ayatollah.
La sentenza puntualizza, in un passaggio, l’apprezzamento nei confronti di Naghdi di tutti i partiti politici italiani e dei numerosi intellettuali del nostro paese con i quali l’esule aveva consolidato rapporti di amicizia. La sentenza ricorda in particolare proprio Paolo Ungari. Con Naghdi si spense non solo la principale voce di opposizione in Italia al regime iraniano, ma, probabilmente, anche la possibilità di dare concreta attuazione al progetto di Ungari. Il 6 settembre del 1999 il professor Paolo Ungari muore. E muore in circostanze talmente eccezionali da lasciare sorpresi. Nel pomeriggio il professore si era recato in piazza Ara Coeli, a Roma, dove in un palazzo umbertino abitava l’onorevole Pasquale Bandiera, presidente della Lega italiana per i diritti dell’uomo. I due si conoscevano sia per la comune militanza nel partito repubblicano, sia per la passione che entrambi nutrivano nei confronti del diritto umanitario. Intorno alle 20, il professor Ungari salutò e uscì dall’appartamento. Ma a casa non arrivò mai. I familiari, preoccupati per il ritardo, denunciarono la scomparsa alle forze dell’ordine. La proverbiale sbadataggine del professore poteva avergli fatto dimenticare di avvisare casa di un improvviso impegno notturno legato alle sue tante attività. Ma le ore passavano. E le ore divennero giorni.
Fra le ipotesi della scomparsa venne accreditata quella del possibile rapimento e, infatti, si mobilitò la Digos. Il caso riportò subito alla mente quello della misteriosa scomparsa di un altro illustre professore romano, Federico Caffè, uscito di casa e mai più rincasato. Le ricerche del professor Ungari durarono tre giorni, fino a quando il suo corpo senza vita venne ritrovato riverso nella tromba dell’ascensore del palazzo in piazza Ara Coeli. La scoperta viene effettuata da una squadra di manutentori, chiamata da alcuni condomini che lamentavano il malfunzionamento della cabina. Secondo la ricostruzione, il professore, forse distrattamente, aveva aperto la porta senza avvedersi che la cabina non era al piano e aveva messo un piede in fallo, precipitando.
Il fatto, con ogni probabilità, era avvenuto subito dopo che il professore si era congedato dall’onorevole Bandiera, anche se questi riferì di non avere udito né tonfi né grida. Il deputato, peraltro, non aveva attribuito particolare significato al ritrovamento della cartella del professore sul pianerottolo, pensando a una delle sue tante dimenticanze. Semplicemente, quindi, si limitò a prenderla in casa. Sempre secondo la ricostruzione, Ungari non era morto sul colpo in seguito alla caduta: alcune impronte insanguinate lasciate nel vano dell’ascensore lasciavano supporre un suo tentativo di rialzarsi. Durante i tre giorni, l’ascensore aveva continuato ad essere regolarmente utilizzato dai condomini. La strana fine del professore suscitò molta incredulità e voci incontrollate azzardarono l’ipotesi dell’omicidio. Alcuni collegarono il caso all’omicidio di Naghdi. La magistratura, tuttavia, dopo avere accertato che l’impianto dell’ascensore era difettoso, archiviò il caso come “incidente”. Oggi le ceneri del corpo di Paolo Ungari giacciono nel cimitero acattolico di Roma, all’ombra della Piramide, simbolo massonico per eccellenza. La lapide reca impresso l’epitaffio “Paolo Ungari, Maestro Massone”, così come aveva lasciato scritto che fosse al momento del passaggio all’Oriente Eterno (la morte, nel linguaggio massonico). Per una di quelle casualità che a volte sanno tanto di mistero, a pochi passi da Ungari giace proprio l’indimenticato amico Mohammed Hossein Naghdi.
di Andrea Cantadori