Milite Ignoto, Perrotta all’India

sabato 21 maggio 2016


Un coro di voci che rivive in un solo corpo, gridando l’orrore bellico. Da domani a martedì prossimo, al Teatro India, va in scena “Milite Ignoto - quindicidiciotto” di Mario Perrotta, ultimo capitolo del trittico sulla Prima guerra mondiale che ha riunito anche Marco Baliani (“Trincea”) e Giuseppe Cederna (“L’ultima estate dell’Europa”). Ne parliamo con l’autore/attore.

Che identità assume, in scena?

“Quella di un milite, ignoto anche a se stesso perché in uno scoppio ha perso la memoria ed ha acquisito le vite e i modi di parlare di tutti i commilitoni morti intorno a lui, unico rimasto vivo in una trincea in montagna. Il suo corpo racconta la Prima guerra mondiale dal punto di vista dei soldati che lo abitano. Quindi delle letture molto personali e parziali, che per me che faccio teatro sono le più interessanti. Soprattutto, lo fa parlando tutti i dialetti d’Italia messi insieme in una lingua nuova, una koinè”.

Dove ha avuto origine il progetto?

“Da anni, essendo molto appassionato, porto avanti un lavoro su quelle lingue considerate minori che sono i nostri dialetti, grammatica delle emozioni. Mi interrogavo sulla possibilità di metterli insieme e capire se hanno dei punti di contatto, di passaggio, se si può creare un idioma nuovo. Una questione di sperimentazione, e la Prima guerra mondiale - di cui l’anno scorso ricorreva il centenario - era un soggetto perfetto. La trincea fu il primo luogo dove si tentò un abbozzo di lingua nazionale, ci sono testimonianze drammatiche di gente che scriveva: ho rischiato di morire perché non capivo gli ordini che mi venivano dati”.

Quali sono state le fonti?

“Fondamentalmente il fondo Grande Guerra dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, il più importante al mondo sulla memoria popolare, creato dal grande giornalista Saverio Tutino. Raccoglie settemila tra diari ed epistolari di varie epoche, il più vecchio credo sia del 1600. Lì si trovano storie meravigliose, ognuna delle quali meriterebbe attenzione solo per sé, perché ogni soldato aveva la sua storia personale”.

Un lavoro sulla lingua, ma anche sulla mimica. In che modo?

“Sentivo l’esigenza di fare, del corpo, quasi uno strumento solo sonoro, quindi son partito dall’idea di staticità e l’ho fatto sedere su dei classici sacchi di sabbia da trincea. Poi mi sono accorto, senza che lo pensassi, che il busto ha cominciato ad assumere una sua autonomia, andava da solo, una ballerina storica di Pina Bausch vedendo lo spettacolo m’ha detto: “tu stavi danzando”. Probabilmente con la parte superiore del corpo c’è una sorta di direzione d’orchestra, perché sono tanti i personaggi che albergano nello stesso fisico, il quale si adatta al personaggio che sta parlando in quel momento”.

Questo insieme di voci cosa esprime nei confronti della Grande Guerra?

“La verità più banale, ma anche più giusta: le guerre son sempre sbagliate, e sempre si perdono, è una sconfitta già il solo iniziarle. Ecco il messaggio da dare alle generazioni giovani, che le guerre le vedono solo in televisione, nei film, e non sanno che possono arrivare da un momento all’altro a casa propria; dallo schermo può venire anche l’idea che sia plausibile lanciare bombe per esportare la pace, come si dice adesso. In più, nello spettacolo c’è la testimonianza del singolo, scritta a chiare lettere nei documenti: le guerre le fanno i poveri cristi e vengono decise dai generali, che se ne stanno bellamente al coperto in retrovia e spesso considerano i soldati come numeri. Luigi Cadorna, di cui ancora portiamo il nome in giro per le piazze, per le vie delle nostre città, in un libretto di istruzione tattica militare scriveva che il comandante deve calcolare quanti proiettili riesce a sparare in un minuto la mitragliatrice del nemico, e bisogna mandare all’assalto un numero maggiore di soldati: qualcuno arriverebbe all’obiettivo. Questo significa considerare gli uomini come pezzi dell’armamento, lui li definisce “carne da cannone”. Ecco, l’urlo del mio spettacolo - conclude Perrotta - è contro queste persone, che le guerre le decidono, e poi le gestiscono in maniera brutale”.


di Federico Raponi