La guerra di Moore: “Where to invade next”

sabato 7 maggio 2016


Michael Moore torna a cimentarsi con la macchina da presa in un nuovo, interessante progetto. Ma occorre dimenticare i tempi di “Bowling a Columbine”, titolo del 2002 dedicato al tema dell'uso delle armi in America, con uno specifico riferimento alle stragi nelle scuole e al massacro nella Columbine High School, dove ragazzi armati di fucile uccisero l’insegnante e 12 studenti per poi suicidarsi. E occorre prendere le distanze anche dal successivo Fahrenheit 9/11 dedicato alla politica americana di Bush e agli accadimenti pre e post 11 settembre.

Con la sua ultima ricerca, Moore abbandona il documentario di denuncia per cimentarsi in qualcosa di inatteso: “Where to invade next” si configura come un progetto che oscilla tra il comico e il sarcastico nel quale il regista, scimmiottando l’America e il suo esercito, di mare e di terra, apre chiedendo al Pentagono di ritirarsi, lasciando a lui il comando per le prossime invasioni. E dopo decenni in cui gli Stati Uniti non hanno fatto che collezionare sconfitte – dal Vietnam alla Libia, dalla Siria all’Afghanistan – Moore si prefigge un tipo di invasioni, che lui stesso condurrà, nel Vecchio Continente, armato della sola bandiera a stelle e strisce. Le sue invasioni sono caratterizzate da tre elementi: nessun uso della violenza e delle armi, neanche una goccia di petrolio, ma qualcosa di importante da “importare” nel suo Paese. L’obiettivo di Moore è infatti contestare l’American way of life, andando a cercare altrove esempi di buone pratiche che potrebbero migliorare il sistema americano e la sua qualità della vita.

I temi che tratta sono il lavoro, la salute, la giustizia, la condizione femminile, la memoria storica. È così che inizia il suo viaggio a “tappe”, che partirà proprio dall’Italia dove scopre un modello di contrattualistica davvero inatteso per un cittadino americano. I lavoratori italiani beneficiano di ferie pagate – circa 4-5 settimane l’anno – e di un fantomatico tredicesimo mese di stipendio in cui vengono pagati pur non avendo lavorato. Di lì si passa al modello educativo finnico – il più efficace al mondo – che paradossalmente si basa proprio sull’idea di lasciare tempo ai bambini e agli adolescenti all’infuori della scuola: uno dei cardini del metodo finlandese poggia proprio sull’abolizione dei “compiti a casa”, e sulla critica del modello statunitense che non insegna nulla, se non a rispondere alla crocetta giusta, basando i propri test per lo più su questionari a risposta multipla. In seguito Moore visita il Portogallo, dove il consumo di droga è sceso significativamente con la depenalizzazione del reato. Un reato che in America ha assunto i connotati di una nuova forma di discriminazione contro la minoranza afro-americana, diventata manodopera a costo bassissimo per quelle companies che lavorano con le carceri.

Tra i tanti luoghi oggetto dell’invasione di Moore – che simbolicamente vi pianta la bandiera a stelle e strisce in segno di “conquista” di quel modello che ambisce riproporre in patria – vale la pena di menzionare il sistema detentivo norvegese, lontano anni luce dalla polizia armata e aggressiva made in Usa, ma anche dalle celle sovraffollate tipicamente italiane. In Norvegia anche nel penitenziario di massima sicurezza ci sono pochi “vigilantes”, peraltro non provvisti neppure della pistola. “Noi usiamo la parola come arma”, dichiara uno di loro. E la riabilitazione sembra funzionare, dato che il livello di recidiva nei successivi 5 anni è inferiore al 20 per cento!

Un viaggio, quello di Moore, che si conclude nella avanzatissima Islanda, un Paese che primeggia per la parità tra i sessi e dove sono numerosissime le donne nei ruoli di comando. Forse anche noi potremmo trarre qualche interessante spunto da queste pacifiche invasioni.

In sala solo nelle giornate del 9, 10 e 11 maggio. Da vedere.


di Elena D’Alessandri