Danzare ad Alcazar

venerdì 29 gennaio 2016


Alcazar? Un teatro di terz’ordine, o una prigione-rifugio? Come si esorcizzano la morte, la guerra, gli orrori e i patimenti (fame, tantissima fame, tra gli altri) sofferti da così tanti milioni di persone? Per esempio, provando a riderci su. Come tenta disperatamente di fare una scalcinata compagnia male in arnese, che perde progressivamente i pezzi del suo quadrante scenico, vittime di Via Tasso e della furia “germanica”, in seguito dello sbarco degli Alleati ad Anzio. Nel rinnovato (nello spirito e nel cartellone!) Teatro Manzoni di Roma va in scena fino al 21 febbraio l’interessante spettacolo diretto da Luca Pizzurro (davvero promettente giovane regista teatrale!) e scritto da un talentuoso Gianni Clementi, quasi intimorito dalla doverosa presentazione e ringraziamento a fine spettacolo. Diciamolo subito: “Alcazar” è un Amarcord di quell’infausto periodo di “Roma Città Aperta” e delle Fosse Ardeatine, assai poco felliniano e moltissimo carnale. Crudamente verista, cioè, al di fuori dei sogni e ben lontano dai pensieri onirici di Federico (“a Federì”, da lassù, ti ricordi come ti si rivolgeva la Magnani?).

D’Angelo è il capocomico-impresario di quella compagnia messa su con gli spilli, con le mille e una astuzie e fatiche nel rimediare un po’ di abiti di scena, trucchi scadenti e, soprattutto, qualcosa da mangiare. Perché vedete, ci dicono regista, autore e attori: alla fine, qualunque sia la sofferenza, l’istinto di sopravvivenza è sempre il più forte, in tutte le situazioni. Più forte della minaccia incombente della violenza bruta. L’ultima difesa del corpo/mente a venir abbandonata. A eccezione, però, del sentimento sacrale del “sacrificio”, per cui si può lasciare la vita come gesto supremo d’amore per la persona amata, o per un ideale. Per la mera sopravvivenza, poi, si può scendere a patti con il diavolo, vendendogli ad esempio il proprio corpo. Quello molto bello che ci mostrano le due attrici protagoniste che si confessano nell’ultimo atto, quando si avvicina l’epilogo e non si può più mentire né alla morte incipiente, né a noi stessi.

Come quando la carità reciproca diviene obbligo e legge divina. Allora, il comico fallito (Michele Gammino) diventa un eroe, che vive e rischia di morire nella sua illusione di un mondo idilliaco, per quel germanico adoratore di Wagner che diventa sterminatore di popoli invasi. L’illuso che, come il ballerino omosessuale, finisce davanti a un plotone tedesco. Come quell’altro, che ama e si sconvolge per un amore eroico, maschile. Poi, ci sono le due ballerine di terza fila (Pellegrino e d’Angelo), passate in prima per pura necessità. Bravissime nella loro contrapposizione campanilistica, che le vede litigare anche manescamente, riversandosi l’un l’altra battute feroci e esilaranti. In romanesco per la prima (Simona d’Angelo). In napoletano, per la seconda, Patrizia Pellegrino (in scena, malgrado il gravissimo lutto che l’ha colpita di recente e che ha voluto ricordare), deliziosa nel regalarci il suo personaggio di artista fallita intriso di saggia napoletanità e grandissima umanità, come quello della sua collega romanaccia, del resto.

Dal punto di vista dei significati, dell’impegno diverso che, per necessità e virtù sfugge alla risoluzione superficiale del dramma, come quella messa in scena dallo scalcinato quintetto di attori-ballerini, è la giovane sarta (Ramona Gargano, bravissima anche lei!), figlia del capocomico, affetta da zoppia fin dalla nascita. La sua recitazione brusca, i suoi sogni infranti di madre e innamorata fallita sono come le punte di lancia di cancellate rovesciate, le cui barre di ferro saldate assieme volano oltre la Quarta Parete, lanciate con violenza da un gigante invisibile. La sua rabbia e il suo dolore si fanno sasso, materia affinché tutti possano avvertire le cose malvagie del mondo di fuori, che si intravvede dalla bocca di lupo di quel sotterraneo di prova, da cui si scorgono soltanto le parti inferiori delle figure della gente passa e dal quale arriva il suono lontano dei passi cadenzati dei plotoni nazisti.

Perché lei, la sartina è destinata “cucire” il futuro e difendere con la militanza il buon diritto degli uomini liberi a vivere nel presente. La grande dolcezza della Pellegrino, abbinata al brillante controcanto della D’angelo fanno da lenitivo, da maschera sorridente e consolante che cela un Altrove ferito, dolorante, morente. Insomma: spettacolo da non perdere! Complimenti alla compagnia e a Gianfranco, caro vecchio leone della moderna comicità italiana!


di Maurizio Bonanni