giovedì 11 giugno 2015
Con l’eccezione di Louis Zamperini nel film “Unbroken” del 2014, è quasi impossibile trovare personaggi positivi italoamericani nella produzione cinematografica di Hollywood degli ultimi decenni. Mentre gli italoamericani, grazie al loro talento e al loro duro e caparbio lavoro, hanno dato un eccezionale contributo positivo alla società, all’economia, alla cultura degli Stati Uniti, in ogni campo possibile. Fiction e film sembrano invce raccontare sempre e solo lo stesso, vecchio stereotipo negativo. Nel 2014 uno studio molto interessante su questo argomento è stato promosso dall’Italic Institute of America: lo stesso studio è poi stato aggiornato quest’anno. Ne parliamo con il presidente del IIA, Bill Dal Cerro (nella foto).
Bill, cos’è l’Italic Institute of America?
L’Italic Institute of America (IIA) è stato fondato a Floral Park, a New York nel 1987, per preservare e promuovere l’eredità della cultura italica negli Stati Uniti e in tutto il mondo, e in particolare la sua eredità classica (ovvero, le sue radici Romane ed Etrusche e il loro impatto sulla civiltà occidentale, così come le scoperte del Rinascimento). I suoi fondatori, Giovanni Mancini, Stefano Gristina, e l’uomo d’affari Carl Pescosolido, ritenevano che alla maggior parte delle organizzazioni italoamericane esistenti allora mancassero due cose: un apprezzamento di qualcosa di più profondo rispetto alla prospettiva degli italiani come immigrati, e l’interesse di ispirare i giovani italoamericani ad essere orgogliosi di questo patrimonio. L’Istituto pubblica “The Italian Way”, una delle riviste più riflessive e provocatorie del Paese. Non si parla di cibo, di moda o di viaggi. Il suo scopo è quello di provocare e elevare l’apprezzamento intellettuale della nostra comunità della “italianità”, al di là delle storie di emigrazione e delle ricette alimentari. Lo stesso vale per l’iniziativa della IIA per i bambini, “Aurora”: un programma di lingua e cultura per i bimbi di età compresa tra 9 e 12 anni (scuola media).
Nel 2015 avete aggiornato il vostro studio - durato anni e molto interessante – su come Hollywood ha descritto la mafia italiana: “Film Study: a century of little progress” (1914-2014). Ci descrivi questo studio e quando e perché avete avuto l’idea di lavorare su qualcosa di simile?
Come giornalista, critico cinematografico e anche come educatore, trovavo assolutamente necessario che la comunità italoamericana analizzasse con serietà e rigore la realtà della nostra storia in America. Troppi italoamericani accettano con compiacenza che la “realtà” narrata sugli schermi cinematografici americani passi per la vera “cultura italiana” anche se, nella vita reale, moltissimi italoamericani sostengono che la maggior parte di queste immagini negative è falsa. Essi credono che anche la maggior parte degli americani di altra provenienza sia a conoscenza del fatto che la storia narrata nei film sia falsa: non si rendono conto del potere che le immagini hanno nel plasmare la percezione delle persone. Di conseguenza, come lo studio rivela, ciò ha permesso a Hollywood di distorcere la nostra vera storia in America. Il cinema è l’unico settore dell’industria americana in cui gli italoamericani hanno molto poco (vero) potere. Sì, Francis Ford Coppola e Martin Scorsese girano diversi film... ma che tipo di film? Anche loro, come lo studio rivela, difficilmente escono dal solito schema quando si tratta di raccontare gli italoamericani. Il pregiudizio esiste ancora.
Quali sono i risultati più importanti dello studio?
Per me il risultato più importante è che nei film americani quasi nove su dieci (86,9 per cento) personaggi di gangster italiani sono completamente falsi: non hanno alcun fondamento nella realtà. Sono semplicemente caricature. Per ogni film su Al Capone, ad esempio, ci sono altri otto film con un gangster di nome Vito o Tony, che non esiste. Eppure, la gente li considera personaggi reali!
Ho trovato particolarmente clamorosa la parte in cui si fa riferimento al rapporto tra il numero totale di cittadini italoamericani (17 milioni nel 2010) e quello dei reali accertati criminali: 1.150 dai dati dell’Fbi, quindi lo 0,0068% della comunità italoamericana...
Sì, anche io. Questo dimostra quanto siano distorte le cose passando dalla vita reale alla presunta “realtà” di Hollywood. E l’ossessione per i gangster italiani non si limita solo al cinema; si trova anche negli spettacoli televisivi, negli articoli di giornale, nei racconti e, incredibilmente, persino nei cartoni animati destinati ai bambini. Purtroppo, anche il Bel paese ha interiorizzato questa negatività. Sono un grande ammiratore del cinema italiano da quando ero bambino e ho notato che l’Italia ha improvvisamente iniziato a produrre un gran numero di film di malavitosi: la camorra, la ’ndrangheta, Cosa nostra, ecc. O l’Italia è ormai una nazione come un pozzo nero dominato da banditi (e non ci credo), oppure i registi italiani stanno imitando i loro cugini di oltreoceano, desiderosi di sfruttare questo genere vendendolo agli americani creduloni (e questo è quello che credo stia accadendo). Sia gli italiani che gli italoamericani sembrano non comprendere il potere delle immagini.
C’è qualcosa nello studio che non è forse ben conosciuto nella comunità italoamericana, ma ritieni sia importante sottolineare?
Prima de “Il Padrino”, nel 1972, il numero di film su gangster italiani era abbastanza basso: 98. C’era un approccio più equilibrato verso la nostra comunità. Con il successo di quel film, però, si è alzato un vero e proprio muro di stereotipi che ha generato altri 430 film di questo tipo, che da 43 anni portano solamente negatività.
Io ho molto apprezzato “Unbroken”, la storia del grande Louis Zamperini, che tu hai descritto come “uno dei pochi film di Hollywood che mostrano un personaggio maschile italoamericano in un ruolo eroico, complesso e dignitoso”. Secondo te quali sono i primi 5 film hollywoodiani che abbiano descritto positivamente un personaggio italoamericano?
Le opinioni sui film sono molto soggettive, e va considerato anche il contesto. Alcuni buoni film uscirono negli Anni Cinquanta: “Marty” e “The Rose Tattoo”, per esempio (entrambi del 1955), o “Full of Life” (1956). Certo, “Unbroken” merita di essere su questa lista. E vorrei aggiungere un documentario come “Berkeley in the 1960s”, che mostra un grande italoamericano, una persona realmente vissuta: Mario Savio, che guidò il movimento studentesco dell’epoca. Incredibilmente Savio, un americano di origine siciliana, era cresciuto balbuziente ma divenne uno dei più grandi oratori della sua generazione. Più Hollywood si concentra sui veri personaggi italoamericani realmente vissuti, come Zamperini e Savio, meno spazio ha per falsificare la nostra comunità.
Tutti conosciamo l’effetto che ebbe “Il Padrino”. Secondo te cosa sarebbe accaduto se Mario Puzo non avesse mai scritto il libro e poi Francis Ford Coppola non avesse mai girato il film? Saremmo comunque qui a parlare dell’evidente e offensivo comportamento di Hollywood contro gli italoamericani?
L’accoppiata Puzo e Coppola ha cambiato tutto. Ha fatto degli stereotipi anti-italiani qualcosa di romantico e mitologico. Di nuovo, si guardi ai numeri: l’81 per cento dei film sui gangster italiani venne dopo il successo di quel film. Forse ci potrebbe essere ancora la percezione che gli italiani sono mafiosi “migliori” rispetto a gangster di altri gruppi etnici, grazie alla notorietà di Al Capone; ma “Il Padrino” ci ha messo contro giornalisti, accademici e critici cinematografici. Questi gruppi di persone - con tanto di istruzione universitaria e grande attenzione a rispettare le “diversità” - si sono rivelati sordi nei confronti di gran parte degli stereotipi italiani. Anche loro li accettano come “reali” e respingono le nostre preoccupazioni con derisione.
Pensi che gli italoamericani avrebbero dovuto combattere di più gli stereotipi contro di loro? E cosa dovrebbero fare oggi che a volte sembra che l’America sia politicamente corretta verso tutti, tranne loro?
Ironia della sorte, la promozione di immagini positive e la correzione delle distorsioni era uno dei focus su cui si concentrarono all’inizio gli intellettuali italoamericani. Ma in qualche modo, questi sforzi vennero offuscati dal grande successo degli imprenditori italoamericani che spesso finirono per interessarsi più dei soldi e del prestigio, e di diventare “American”. Questi leader iniziarono la tradizione di spendere soldi per tutto, tranne che per la cultura italiana: invece, decisero di raccogliere e destinare fondi per cause non legate alla loro etnia, come la sanità, gruppi di aiuto caritatevole, borse di studio universitarie generiche. Il loro scopo era quello di mostrare agli americani non di origine italiana di essere dei veri e generosi americani, non dei mafiosi. A mio avviso, quello che non capirono è che nonostante ciò, gli americani non di origine italiana fanno ancora battute su come queste organizzazioni siano gestite da gangster. Tali gesti di buona volontà non hanno avuto alcun significato. Fino a quando il tema di come vengono descritti gli italoamericani dai mass media non sarà pienamente risolto, e io credo che il nostro studio sia un passo nella giusta direzione, gli americani che hanno una vocale alla fine dei loro cognomi continueranno ad essere guardati dall’alto in basso dagli altri, come se fossero socialmente inferiori.
di Umberto Mucci