“Da Balla a Dalla”

sabato 24 gennaio 2015


Vivete appassionandovi? Allora, certamente, capirete che, per qualcuno, ha senso accomodarsi nel cono d'ombra di un personaggio mitico, riscaldandosi l'anima con la sua luce riflessa. Ma, anche no, in fondo. Perché, come accade a Dario Ballantini, che ci racconta il suo Lucio Dalla, ponendosi come suo "Doppio", nello spettacolo "Da Balla a Dalla", che va in scena alla Sala Umberto di Roma (fino a domani), il Mito trova diversa forma e vita nella grafica e nei dipinti del suo eco evocatore. Infatti, malgrado il suo noto mestiere di imitatore (che cosa non si fa per... sopravvivere!), Ballantini è, innanzitutto, un autentico e pregevole artista, che sa dare alla pittura e alla grafica un suo particolarissimo e originale segno, portandolo in giro, come una Madonna pellegrina, in Patria e all'estero. L'effige ridondante, ben presente nella galleria dei suoi ritratti, è quella di Lucio, e soprattutto della sua barba e del suo mento ricurvo, raccontati e descritti in cento rappresentazioni diverse, tra bozzetti, quadri e cartoni.

Immaginate, poi, quando si ha, addirittura -come accade al nostro "Balla"- la fortuna nelle corde vocali di poter autorappresentare, nella propria galleria personalissima dei personaggi famosi, il mito genovese, con la sua voce profonda, stranita da acuti imponderabili e da vocalizzazioni preziose, fino a farne uno strumento musicale sperimentale. Sul palcoscenico si scorgono, all'estremità dei lati, un leggìo, a destra, e un camerino d'artista sulla sinistra. Il fondale, invece, è rumorosamente presidiato dai quattro personaggi del gruppo musicale, tra cui uno straordinario clarinettista, che non riesce a disarmare il suo strumento, nemmeno nell'unico intervallo della serata. Ballantini, sul palco, alterna imitazioni di canzoni di Dalla, con narrazioni di memorie personali. Così, con il trascorrere del tempo veniamo a conoscere la sua esasperante caccia al Mito, coronata dal primo incontro e, poi, da un'amicizia vera, che si rivela premurosa e affidabile nei momenti topici dell'imitatore-artista e pittore, in cui Dalla risponde puntuale agli inviti, con grande sorpresa del suo adoratore.

E come accade quando si pizzica una corda della chitarra, Ballantini restituisce a tratti, con note di colore (vere e proprie toccate, che ci vengono donate nel fluire del racconto), l'umanità di Lucio, il suo essere semplice, spesso autoironico. Il "Balla" ci porta a scoprire sentieri di ricerca del "Dalla" meno noti al grande pubblico: il suo scegliere come paroliere un prosatore poeta del calibro di Roberto Roversi, riuscendo a mettere in musica parole e racconti impossibili. Che, altro, sennò, ascoltando la favola della stella e del coyote, laddove lo stile di vita e la filosofia del quotidiano di quest'ultimo vince, fino all'incenerimento (la morte, infatti, era la posta in gioco della sfida tra i due), la bellezza statica, annoiante e straniante, della stella fissa. E che dire di Corso Buenos Aires, dove il paradosso regna sovrano, e il sangue diventa vino, mentre il marginale, il cane e sua figlia assumono un rilievo da giganti della montagna, in mezzo a tanta gente che passa, e che crede realtà ciò che, al contrario, esiste solo nel proprio immaginario.

E, intanto, Ballantini recita, si cambia d'abito (maglione) senza sosta, disegnando e cancellando i contorni a carboncino della sua barba finta. Sempre lì, davanti al microfono, come uno stakanovista della nota, con le braccia a pendolo, ricurve all'esterno, per dondolarsi alla maniera strana del Mito. Quel "Dalla" che il "Balla" imita con foga e convinzione, rincorrendo i timbri originari della sua voce gutturale e sincopata, che ci procura un senso di leggero disagio, ascoltandolo, per via di quel suo mangiare le parole, o nel lasciarle soffocare da una musica talvolta ingombrante, e sinceramente invadente e martellante, a causa delle code lunghissime, che si concede il quartetto di accompagnamento, al termine di ogni canzone.

Code che, va detto, comprimono un po' eccessivamente una pur interessante spiegazione del Mito, dei suoi rapporti difficili con il mondo; per quel suo voler raccontare la marginalità, le povertà sublimate e raccolte in una sorta di offertorio pagano, di chi dorme sotto le stelle, o di chi non ha pace nel suo letto, perseguitato dai pensieri notturni e dal mal d'amore. E non c'è niente di meglio della Stella di Mare per dire a una donna, nel cuore della notte, le cose che fanno sognare, come le mani che si cercano; il desiderio di donare anche ciò che non si ha. Spettacolo da tenere presente, soprattutto per chi ha avuto vent'anni negli anni Settanta.


di Maurizio Bonanni