“Tre Cuori” di Jacquot: la geometria d’amore

mercoledì 12 novembre 2014


Che dire delle “sliding doors”? Conoscete quelle porte scorrevoli del Destino e del Fato che si aprono per un attimo e si richiudono un istante dopo, come una finestra spazio-temporale tra passato e futuro? Ecco, il film “Tre cuori”, del regista Benoît Jacquot (interpreti principali: Benoît Poelvoorde, Charlotte Gainsbourg, Chiara Mastroianni, Catherine Deneuve, André Marcon) ruota intorno a questo strano scherzo del destino: un colpo di fulmine, che s’incunea forte, folgorante come un infarto, nella mente di uno spaesato ispettore di finanze, dall’andatura un po’ sbieca e dall’espressione “un po’ così”, in cui dramma, passione e gioia hanno quasi sempre la stessa faccia del martirio immanente. Già perché a volte la vita picchia veramente duro, facendo scivolare, come meglio le aggrada, le porte scorrevoli del tempio di sua maestà il Tempo.

Così, il triste ispettore Marc, talmente colpito da lei, Sylvie, da non potersene più distaccare, cade nella trappola dell’appuntamento al buio nei giardini di una Parigi in un giorno senza pioggia, nell’illusione incancellabile che, ormai, i loro due cuori siano uniti per sempre. E lei che, nella stessa incoscienza dell’incontro illusorio con la risolvente affettiva della propria esistenza, si trova pronta al ribaltamento più radicale di un menage stanco, distanziante, senza più impeto e interesse. Bagagli che si fanno e si disfano, perché il Fato decide chi si incontrerà e chi rimarrà separato, contro ogni sua volontà.

Così, le sliding doors scivolano e si chiudono all’improvviso, tagliando due destini in due attese, che assomigliano, come un teorema euclideo, ad altrettante rette parallele. L’una, quella che resta sulla banchina, rimane seduta sulle proprie valige. L’altro è colui che, invece, entra nel treno reale dell’esistenza, e vive la rappresentazione di una vita normale: un nuovo incontro; la forte attrazione sessuale; e poi un matrimonio civile e, addirittura, un bellissimo bambino. Ma la finestra temporale, riaprendosi all’improvviso, fa scoprire al protagonista che il bene perduto e mai dimenticato è, addirittura, la sorella amatissima di sua moglie!

In parallelo scorre una vicenda politica di un certo interesse, per cui l’ispettore, pur di raffreddare il catino ribollente del vulcano dei suoi sentimenti, perfettamente e simmetricamente diviso tra le due donne sorelle, prende di mira il sindaco della cittadina in cui si è trasferito dopo il matrimonio con Sophie, e che è stato colui che li ha sposati in Municipio. Perché il sindaco, uomo ricco e influente, si è dimostrato un evasore provetto, e rivendica, a sua difesa, di essere ostacolato (volutamente?) proprio a ridosso delle elezioni amministrative locali, aprendo così la prospettiva di una lotta al cardiopalma tra Davide e Golia.

Il capolavoro della regia, però, sta tutto nella fotografia, nei primi piani e negli interni. Perfette, queste ultime, con arredi ricercati del Settecento e dell’Ottocento francese, che hanno la loro cornice di verde nelle impeccabili armonie cromatiche di giardini e di fiori curatissimi. Anche il bosco, il retro della casa, con il capanno degli attrezzi, dove si consuma il primo decisivo atto fedifrago, con l’effrazione del vincolo sacrale matrimoniale, sono descritti con una certa voluttà sensualeggiante. La Deneuve è una suocera bella, elegante e raffinata, che sa preparare cibi prelibati e attrezzare la tavola per decine di ospiti, mettendoli tutti a loro agio nella sua stupenda casa della provincia francese.

Molto del tempo che passa, infatti, è occupato da piatti che si colmano e si gustano, secondo un ritmo antico, ancestrale, attorno a una tavola illuminata a giorno dai grandi finestroni alle spalle dei commensali, che danno luce ai sentimenti nascosti, burrascosi, sospesi tra mezze frasi e discorsi lasciati a metà. Apparecchiare e disfare la tavola è sempre un rito collettivo, svolto in un silenzio religioso, cadenzato dalla sovrapposizione dei suoni cristallini e metallici delle stoviglie da rigovernare. Imbarazzi, sorrisi e smorfie di dolore, sono tutte porzioni sempre abbondanti, che la macchina da presa spia, scruta e ci rimanda quasi ossessivamente.

Poiché il “colpo di fulmine” è un ente emotivo “afono”, tutto il pathos della storia è distillato e conferito ai treni persi per un soffio, a passi in comune senza fine e senza meta, ad amplessi rubati senza sesso, soffocati, fuggiti, pur nell’accendimento esasperato del desiderio. Ma la colpa di per sé è un male grave. Anche se i due protagonisti negativi, Marc e Sylvie, sorella di Sophie, possono vantare a loro discarico proprio la ghigliottina delle porte scorrevoli: qualcosa che va in senso contrario ai desideri dei protagonisti, chiudendosi irreparabilmente, all’improvviso, in modo da separare per sempre l’uno e l’altra.

Ma... C’è sempre un nostro “Doppio” in agguato. Quello, per capirci, che pretende indietro il passato che non fu mai! Così, eccolo allora apparire e insinuarsi, come il serpe della tentazione cosmica, nei pensieri di Marc, facendosi filiforme come un’ossessione infinita. Lui, che vede materializzarsi e risorgere, da uno schermo piatto, l’immagine lontana di lei, scivolata via quando si sono chiuse le porte del treno; o quando un attacco cardiaco l’ha fermato, inopinatamente, appena a un passo dalla sua conquista della felicità. Il suo Doppio è un ariete che non conosce soste, nel battere ostinatamente, e sempre più forte, contro le porte del Kronos. Perché l’altro Marc vuole, a tutti i costi, ritornare indietro, ripassando attraverso quella maledetta finestra spazio-temporale, per ricongiungersi con lei, al momento del mancato rendez-vous, violando anche a dispetto dei santi (che poi sono gli affetti terreni più veri e intensi) la sua serenità famigliare.

Ovviamente, la sua fine sarà il suo vero inizio. Seppur in un’altra dimensione, in un’altra storia immaginaria. Film da vedere, comunque. Anche per farsi un’idea del paradosso che, troppo spesso, si fa realtà.


di Maurizio Bonanni