Il malato immaginario in scena all’Eliseo

sabato 10 maggio 2014


La Compagnia del Teatro Stabile di Bolzano fino al 25 maggio mette in scena all’Eliseo di Roma “Il malato immaginario”, forse la più famosa delle commedie satiriche di Molière. Paolo Bonacelli impersona, con consumata perizia, il ruolo di Argante, mentre Patrizia Milani è una perfetta Tonietta, l’astuta servetta che ha un compito salvifico, in grado di trasformare un ipocondriaco maniacale in una persona - in qualche modo - normale.

Molière disegna il rapporto affettivo tra Tonina e Angelica dandogli il significato simbolico e la struttura di quello tra Madre e Figlia, in netta opposizione con l’altro, consuetudinario e conformista, che lega, sul piano puramente formale di parentela, la seconda moglie di Argante, Belina (interpretata dalla brava Giovanna Rossi), e la sua giovane figliastra, Angelica, che Belina vorrebbe mandare in convento assieme all’altra figlia minore di Argante, per appropriarsi dell’intero patrimonio del padre delle due ragazze. Alla furbizia di Tonina si annodano le complicità di altri due coprotagonisti: Beraldo (Carlo Simoni), fratello saggio di Argante, e lo spasimante di Angelica, Cleante (Massimo Nicolini), che fondono la saggezza della senescenza con l’ardore degli anni più verdi.

Sarà proprio Beraldo, grazie a un provvido mascheramento di Tonina (che terrorizza il suo padrone con minacce di amputazione degli arti e dell’estrazione di un occhio, fingendosi medico) a fare breccia nello spazio psicotico del fratello, per smascherare l’affabulazione di medici inetti e grassatori. In realtà, la malattia immaginaria di Argante appare come un mero traino, per ricevere una remunerazione affettiva, che fa leva sul suo supposto stato precario di salute. In tutta l’opera, infatti, l’ipocondria appare come un soggetto da recitare più che da vivere nella sua realtà effettuale, sul cui filo sospeso danzano le immagini grottesche (come i loro nomi dissacranti) dei Signori del salasso e del clistere, considerate vere ancore di salvezza, da una mente depredata delle sue funzioni analitiche più banali. Come un finto cieco che, in realtà, ci vede benissimo, Argante finge di cadere nella trappola che gli viene tesa dalla moglie Belina e dall’amante di lei, un sedicente notaio, che tentano con vari espedienti di appropriarsi di tutti i suoi beni.

Del resto, quel dare ossessivamente priorità al suo finto male consente al protagonista di velare, con un tocco di pietà per se stesso, il quadro impietoso di falsità, ipocrisie e tradimenti, di cui è intrisa la sua vita quotidiana. Per sua fortuna, il Bene, rappresentato dal trio Tonina-Angelica-Beraldo, stende una rete protettiva senza smagliature, impedendo alle astuzie del Male (ben rappresentate dal collettivo Belina-Medici e Farmacisti senza scrupoli), di impadronirsi dei beni e della vita stessa di Argante. Molto ben centrati appaiono i personaggi dei medici incompetenti e isterici, nelle loro voluttà tutte presupposte di rappresentare la “scienza” del XVII secolo, senza altro sostegno di quello di un vuoto e inconsistente parafrasare in latinorum, che nasconde agli allocchi l’abisso di ignoranza in cui viaggiavano, senza scrupoli e ritegno alcuno, le professioni medicali dell’epoca. Si fanno notare, per la mimica e l’espressività clownesca, il figlio di Diarroicus, Tommaso (Fabrizio Martorelli), promesso sposo ad Angelica, e il dottor Purgone, autentiche maschere veneziane della vacuità dell’essere.

Per bocca di Argante, Molière dà perfino spazio alla critica verso se stesso e alla sua opera di autore, mettendo in scena le offese e gli insulti scontati, sussurrati, o gridati dai diretti interessati nei salotti e nelle facoltà di medicina dell’epoca. In fondo, questo escamotage di Molière è un modo davvero ammirabile, per annodare il filo del suo discorso critico, in merito alla circolarità complice del rapporto tra lo sprovveduto e il suo profittatore. Argante sta benissimo, e in fondo lo sa, ma mantiene viva la sua dipendenza dai medici che fingono di curarlo con continui, estenuanti lavaggi delle sue viscere intestinali, per sentirsi protagonista, come mostra la primissima scena, nel monologo in cui depenna e decurta le parcelle esose che i suoi sfruttatori regolarmente gli sottopongono, per il pagamento relativo.

Bonacelli ricorda gli insuperati maestri del teatro comico e drammaturgico italiano (Scaccia, Govi, Fabrizi, Tieri), dove la mimica e l’intonazione della voce sostituiscono magistralmente una dinamica fisica scarsa o assente, a causa dell’età. Lo spettatore è costantemente attirato nella spirale ammaliante delle frasi-contenitore, in cui i doppi sensi e le multifocalità dei discorsi inebriano la prospettiva, fino all’ubriacatura semantica. Proprio quello che Molière con i suoi semplicissimi mezzi espressivi ha fatto comprendere così bene - in ogni parte del mondo - a decine di generazioni di spettatori. Si può essere tanto sani da essere irrimediabilmente… “malati”? Oh sì, mille volte sì, malgrado l’ossimoro! Perché la finta malattia (meglio se coniugata e descritta in uno sballatissimo “latinorum” in serie molteplici, convergenti e divergenti) è un rifugio, un baluardo sull’inettitudine di ogni epoca, dove l’onda gigantesca dell’avidità umana, la voracità per un benessere che serve solo a colmare i desideri del ventre e dell’intestino non solo consegnano al Faust storico masse enormi di infelici, ma fanno volare come un fuscello i poveri gusci delle nostre esistenze, troppo timorose per avere il coraggio del rifiuto e della rinuncia.

Stordirsi con i purganti ha la stessa valenza dell’alcolismo e delle tossicodipendenze. Tutto serve perché non è mai il caso di approfondire, di entrare troppo a fondo nelle proprie insoddisfazioni. Nella cecità di un uomo maturo, abbastanza folle per non rimanere serio, una bella moglie giovane non può che essere - secondo lui - innamorata della sua voce bronchiale e delle sue forme pingui, o dei brontolii del suo ventre (schiantato da mille liquidi inseriti a forza nel suo corpo da suoi sadici speziali), stesi come panni informi sull’enorme poltrona, abbandonata solo per le repentine corse nella ritirata, a seguito degli effetti a cascata degli innumerevoli clisteri che uomini astuti, con magri cervelli nascosti all’ombra di immensi cappelli cilindrici, sanno far fruttare come la gallina dalle uova d’oro.

Per quei cappelli, vuoti di meningi, Argante è disposto a barattare la gioventù e la bellezza di Angelica, pur di darle come marito un giovane medico, telecomandato da un padre dispotico che lo usa come ventriloquo di se stesso. In Molière la ricchezza stupida di attempati borghesi danarosi è sempre riscattata da quella povera delle figlie del popolo, come Tonietta, che per vivere sono prese a servire in casa un padrone che le maltratta e crede di comandarle, non rendendosi mai conto come, in realtà, accada l’esatto contrario! Ed è lei a far cadere nella trappola mortale della disistima a vita di Argante la sua perfida seconda moglie, che libera tutto il suo odio furioso alla falsa notizia del decesso del coniuge, mentre - al contrario - Angelica se ne dispera fino alle lacrime torrenziali, malgrado la più grande ingiustizia che una giovane possa subire da un padre amato: la condanna a sposare chi non si ama.

Il malato immaginario diviene, così, una sequenza di paraventi, dietro i quali si rifugia spesso Argante per i suoi bisogni corporali, ma anche il formidabile fratello, che vede lontano come un telescopio, quando fa la differenza tra la medicina parolaia e quella veramente curativa, che guarisce le malattie reali. Insomma, uno spettacolo da non perdere!


di Maurizio Bonanni