Il “Grande Mago” Al teatro La Cometa

martedì 4 febbraio 2014


Una “magia” ci salverà? Politicamente sono in molti a pensarla così. Invece, dal punto di vista dell’Anima, Luca Bei, con il suo “Grande Mago” (tratto da una storia vera: testo di Vincenzo Moroni e regia di Giuseppe Marini), ci racconta di un’altra dimensione, nel suo straziante monologo, che va in scena (fino al 16 febbraio) al Teatro La Cometa di Roma. Come l’alluvione che esonda dalle rive e strappa ogni baluardo e protezione, così la doppia identità tra mente e corpo annega, nella sua inarrestabile dissociazione, i territori degli affetti e le griglie convenzionali, all’interno delle quali si svolgono i riti della civile convivenza. Al pari di uno Stromboli, i rumori di tuono annunciano l’evento eruttivo catastrofico, che affida alla stratosfera i ciottoli malandati e incandescenti di una vita che fu.

Così, “Lui”, il protagonista triste e perseguitato di questa storia, ci racconta del suo calvario per il cambiamento di sesso, e lo fa avvolto in sembianze androgine, calate all’interno di un maquillage pesante e volgare, sostenuto da due gambe sottili e slanciate di danzatrice leggera e leggiadra. Sul tutto, domina il bianco accecante di un paio di leggins pellicolari e di una camicia da notte femminile, indossati dal protagonista. È quella luce singolare, poi, a spingere sul piano esterno, all’interno di una composizione vuota, arredata da un’unica poltroncina, le voci di dentro del dramma, che è, innanzitutto, di Madre Natura (Grande Mago), così imperdonabilmente distratta, al momento di far combaciare sesso e sessualità. “Lui”, Andrea, è un uomo che convive con la sua compagna Anna, che sta per regalargli un figlio maschio, proprio quando Andrea si accorge di essere come Anna: una donna.

Il racconto lascia solo immaginare le lacerazioni all’interno della coppia, conseguenti a questa sua rivelazione, con la quale Andrea chiede a “Lei” di accompagnarlo in questa difficile, avventurosa traversata nel deserto. Il tempo, da lì, in poi, non si conta in giorni, ma in anni. Nasce Simone e, fin dall’inizio, il bimbo è obbligato a confrontarsi con la superficie, levigata e morbida di un volto materno, amorevole e accudente; al quale se ne giustappone un altro, d’indefinita fattura. Ed ecco, così, prendere forma il sudario di un padre androgino, che perde del tutto la sua virilità maschile, agli occhi del resto del mondo, presentandosi a scuola, al lavoro, nel tempo libero, ovunque, insomma, con i trucchi e gli abiti tipici di una voce bianca, come quelli di un attore obbligato a interpretare, esclusivamente, ruoli femminili, per contratto “naturale”!

Il tutto, mentre Anna prende sempre più progressivamente coscienza che no, non potrà mai fare da nocchiero a quel suo strano uomo, che prima la fa concepire e poi si rivela come un quasi rivale in amore, a seguito della sua folle decisione di diventare come lei: avere una vagina, al posto del pene! Ma il filo scorsoio del dramma si annoda in modo progressivamente sempre più stringente sui rapporti anomali “Padre-Figlio”, in cui la favola e il rifugiarsi di entrambi, nel fitto fogliame di un universo lirico e fiabesco, soffrono il farsi largo delle lame che li inseguono spietate, tagliando i rovi selvaggi lasciati crescere per impedire invasioni barbariche dall’esterno.

Così, le domande del bimbo, a quel suo padre fuori dagli schemi, tanto diverso da tutto ciò che lui vede attorno a sé, e con cui si confronta ogni giorno (in base al principio tranquillizzante e discriminante tra “normalità” e “depravazione”), si fanno sempre più disarmanti, andando ben oltre le capacità di tenuta di una narrazione sempre più affabulatrice, condotta da un padre che ama come tale, ma che non ne ha le “apparenze”! A poco a poco, il contrafforte di Anna vacilla e si sgretola facendosi ariete, come un costone della montagna che precipita nell’invaso sottostante, chiuso a valle. L’onda gigantesca che ne origina annega nel fango tutto ciò che un attimo prima era vita, pulsione e speranza di futuro. L’irresistibile energia negativa è impersonata dal nuovo compagno di Anna, che la convince a esiliare Andrea, mettendolo brutalmente fuori di casa, senza più una parola, una spiegazione.

Da lì in poi, Andrea vedrà Simone in base alle condizioni fissate dal giudice dei minori. Da qui, le fasi intense dei dialoghi e degli incontri, ricostruiti da una recitazione affannata e angosciata: quella di un padre che vede suo figlio abbandonarlo al proprio destino. Simone, è ormai incapace di reggere il confronto, attraverso la fantasia di una volta, che sola gli consentì, un giorno lontano, di collocare la storia e l’immagine di Andrea, all’interno dell’universo incantato del Grande Mago. Così Andrea, scacciato, emarginato, deriso e perfino disoccupato, dovrà attendere molto tempo ancora prima di rivedere suo figlio, al compimento del dodicesimo anno di età.

Ad accompagnarlo nella fucina bianca del Grande Mago, dove avverrà il miracolo della ricostruzione identitaria tra sesso e sessualità, ci saranno tre figure fondamentali di donne. La prima, una “transgender”, amica, confidente e ospitante, già approdata sull’altro “versante”, dopo aver abbandonato la sua chiocciolina maschile. Le seconde, madre e sorella, che dimostrano una tenerezza, una forza di comprensione per quel loro “legno storto”, figlio e fratello, tali da riconciliare -con la speranza di un mondo migliore - uno spettatore più che smarrito. E, poi, quella casa nuova di periferia, tirata su con immensi sacrifici da Andrea, spinto dal sogno di ricevere lì, un giorno, il figlio Simone. Concludendo: sconsigliato ai minori, ma consigliatissimo a chi voglia davvero approfondire l’avventura umana su questa Terra, anche nei suoi lati più bui, dolorosi e inesplorati.


di Maurizio Bonanni