Crimini coniugali, successo all’Eliseo

martedì 28 gennaio 2014


Quando “piccolo” è relativo! Al Piccolo dell’Eliseo è andato in scena “Piccoli crimini coniugali”, per la regia di Alessandro Maggi, con Elena Giusti e Paolo Valerio, su testo di Eric- Emmanuel Schmitt. Al primo impatto, una scenografia mossa, imprigionata in forme rigidissime di arredi e pareti satinate, rigorosamente disegnati ad angolo retto, accomoda lo spettatore in una sorta di cabina di pilotaggio, dominata centralmente da un boccaporto ripido, collegato alla sala principale da gradini altrettanto impegnativi. Da lì, da quel foro scuro, transitano le vite dei due personaggi, Lui e Lei, marito e moglie, avvinti da un Pathos circolare, lungo il quale scorrono, a ruoli a tratti invertiti, la vittima e il carnefice, che ci narrano di uno stato matrimoniale giunto alla sua massima sofferenza.

Perché, per Lui, il finto smemorato, scrittore di romanzi gialli ad alterni successi, l’unione matrimoniale è, in realtà, dapprima una lotta di corpi pieni di desiderio, per diventare poi, invecchiando, una guerra tra “spoglie”, anime in decomposizione, che scommettono sulla dipartita di uno dei due, per poter vincere la lunga guerra di amore-odio della vita coniugale. Lui e Lei bellissimi, che si scambiano la natura dell’amore come mantidi religiose, catturando nel proprio seno colui che si vuole perdere.

Secondo lo schema di “Second Life”, Lei manipola la mente di Lui - riconsegnata, dopo un falso incidente, al mondo dei viventi, priva di memoria del passato recente - plasmandola con le dita dello scultore, che dà un volto all’argilla informe, premendo delicatamente con i pollici e togliendo con la spatola dei desideri la materia in eccesso, fino a farne apparire il soma ideale. Così, il Lui reinventato diviene, nel racconto ricostruttivo di Lei, il marito ideale, che l’accompagna, paziente, ad acquistare profumi e abiti firmati, scegliendoli con un gusto unico, inconfondibile.

Di quadro in quadro, attraverso scene sincopate, scandite da luci calanti e poi reviviscenti, i dialoghi si fanno sempre più realistici e la dedizione senza limiti di Lei involve attraverso fasi di transizione sempre più accentate, abbandonando progressivamente i toni passionali, per abbandonarsi alle spire dell’ira e alla gelosia più urticante. Se, nei primi quadri, il contatto dei corpi, pur rapido e inconcludente, testimonia di una passione fisica ancora vigile, le due metà della vergine di ferro della coppia infelice tornano a ruotare sui propri cardini, per rinchiudersi sulle lame taglienti, che rievocano il dolore quotidiano di Lei che, per quindici anni, ha tenuto in piedi il filo sempre più esile della convivenza comune.

Ed è Lui, che lasciando cadere d’improvviso la maschera del finto “non-ricordo”, inizia un viaggio drammatico all’interno della psiche di Lei, lasciando che affiorino per giustapposizione, sul piano ribaltato, come in una tela cubista, i volumi e le etichette delle bottiglie di brandy, uniche amicizie di una donna sola, nelle lunghe giornate di attesa del ritorno di Lui. Per entrambi, è un continuo scrutare nelle reciproche intenzioni, nel tentativo di leggere, casualmente, per una parola perduta, nel diario delle infedeltà, ora fatte credere, ora solo supposte dall’altra, perché due negazioni (“non può non essere così”) fanno un’affermazione.

E allora, in quell’apertura a bocca di lupo, al centro della stanza, ora sale ora scende uno o l’altro degli elementi della coppia, per la fuga sempre sterile, di chi conosce la propria dipendenza da ciò che non può essere abbandonato, siano esse abitudini che volti amati. Sarà il ricordo del primo incontro a fare incontrare di nuovo chi si è fatto, addirittura, criminale, per mettere fine ai propri tormenti, tentando di uccidere chi ne era la causa. Ma, la liberazione attraverso la morte altrui può essere soltanto sorgente di rimorso eterno.

E, allora, quando colui che si è tentato di colpire torna a nuova vita, accade che anche la vittima sia chiamata a rinascere, abbandonando la crisalide coniugale (che l’ha, in qualche modo, pur con una violenza ultima, aiutato a mettere le ali), per divenire individuo adulto e migrare lontano, verso i territori sconosciuti dell’amore.

Perché l’animo di una donna lo si conosce veramente, a volte, solo quando ci si trova appesi, come un trapezista senza protezione, alle sue pendici estreme, in bilico tra ragione e irragionevolezza, tra fuga e abbandono, in un’altalena di sentimenti, che trova pace solo quando fine e principio si ricongiungono, rinsaldando una catena che si era spezzata da tempo. Complimenti ai due attori protagonisti che hanno saputo dare tempra ed emozioni a un racconto-verità sulla fatica di amarsi.


di Maurizio Bonanni