La Storia finisce al Magazzino 18

sabato 21 dicembre 2013


Quando la Storia finisce in… un Magazzino, appena maggiorenne! Quel numero, “18”, ricorda, infatti, la fine della Grande guerra, gli immensi lutti susseguenti, le cicatrici indelebili degli invalidi, i traumi insepolti e inseppellibili di milioni di reduci e delle loro famiglie.. È così che, fino al 22 dicembre, alla Sala Umberto di Roma, un superbo Simone Cristicchi imposta il suo racconto sulla tragedia immane dei profughi istriani, le cui vite spezzate, distrutte, umiliate da un esodo vergognoso, furono sigillate dal silenzio degli occupanti Alleati, dalle autorità italiane e da un popolo di connazionali immemori. Sono quei nostri padri gli imputati veri del processo intentato da Cristicchi: loro, che sposarono il pregiudizio e la convinzione che gli istriani italiani, spogliati di tutto, fossero “fascisti”, rottami di un’ideologia sconfitta e rinnegata, da annullare e nascondere come una mala pianta, o una malattia venerea disgustosa.

Quei profughi venuti da Fiume (centinaia di migliaia di donne, uomini, anziani e bambini), furono ritenuti figli illegittimi, lebbrosi ideologici, da un’Italia che voleva, il più in fretta possibile, far dimenticare i guasti politici e sociali di un Ventennio, finito nel sangue inutile dei nostri morti, caduti nella Seconda Guerra Mondiale, o nella fossa comune, ancora più traumatica, di una guerra civile, giocata tutta al Nord, con la costituzione della Repubblica di Salò, a protettorato nazista. In un tragico e lieve music hall, gremito di canzoni dell’autore, spesso dure, qualche volta struggenti di ricordi e passioni, la mano di Cristicchi vola leggera, impalpabile come una farfalla caccia bombardiere, che deposita le uova del futuro bruco del dolore e della solitudine, all’interno di migliaia di suppellettili, di proprietà dei profughi istriani, fuggiti dalla loro terra d’origine nell’immediato Secondo Dopoguerra.

Masserizie, accatastate e abbandonate, con rigoroso disordine, nelle fauci di un enorme magazzino n. 18 del porto di Trieste. Per esplorare quelle viscere di legno, come un tarlo curioso e attento, Simone Cristicchi si raddoppia e sdoppia, ora entrando, ora uscendo come un Fantasma dell’Opera, dalla sua crisalide di burocrate archivista -che parla con un greve accento romano - inviato da un misterioso dirigente del ministero dell’Interno, a fare un meticoloso inventario di tutte quelle povere cose, depositate nel Magazzino 18, di competenza della Prefettura di Trieste. Perché quel doppio ruolo, fatto di continui inserti, che sfumano nelle vicendevoli rappresentazioni simboliche, consentono al nostro mattatore di raccontare, con rigore e grazia certosina (mitigati dall’accento greve dell’impiegato ministeriale, così banale nelle sue telefonate ai parenti e alla fidanzata), ciò che è riportato in documenti autentici, conservati negli archivi di Stato italiani.

Il quadro, in tal senso, si fa sempre più fosco e drammatico, man mano che la tela del racconto si tesse di ricami sempre più violetti e lividi, come lettere e corrispondenze di privati cittadini, che raccontano l’orrore degli stupri su donne giovanissime con i seni accoltellati, perpetrati dalla una marmaglia ubriaca di miliziani titini; o i rastrellamenti notturni, da parte delle bande di partigiani slavi, per portare parecchie migliaia di persone, assolutamente innocenti, sui cigli delle mille e una foibe, che infestano con la loro presenza quelle zone carsiche. È lì, che si è svolta, inesorabile, quella muta, immane tragedia, taciuta da tutti, perché il compromesso storico catto-comunista non avesse mai a subire la benché minima incrinatura, qualora fosse appena riaffiorata la crudeltà di quella pulizia etnica, passata colpevolmente sotto silenzio.

Perché Yalta, appena nata, doveva essere rispettata a ogni costo, prevalendo sui destini di quella parte di terra martoriata, contesa dalle più feroci ideologie del Novecento, come quella nazista e comunista sovietica. È il Fantasma del Magazzino 18, il personaggio per cui Cristicchi abbandona il fragile involucro dell’archivista attonito e smarrito, di fronte a tanto dolore nascosto, a scorrere uno per uno i grani di un rosario, fatto di drammi personali e collettivi, come quello dell’esecuzione con il colpo alla nuca, di notte, al freddo, di tanti istriani, perfino di fede comunista, fatti cadere per centinaia di metri nel fondo delle foibe, incatenati l’uno all’altro, dove il morto si tira dietro il vivo nell’abisso, in modo da risparmiare persino il prezzo di una pallottola!

Altrettanto urticante, è il ritratto delle persone inermi che, in un tranquillo week-end di paura, vengono sterminate, mentre si godono il tepore della spiaggia, nell’immediato Dopoguerra: felici, ma solo per brevi istanti, che la guerra sia finita. Solo un attimo, prima che qualche tonnellata di tritolo delle mine antisbarco, tirate a secco sulla spiaggia, le faccia saltare in aria tutte contemporaneamente. Senza che nessuno, poi, vada a ricercare e punire i responsabili di quell’atto orribile. Archiviare, archiviare tutto, disperatamente. La via dell’esodo via mare, i volti incredibilmente tranquilli, senza grida o accenni di pianto, scorrono a tratti sul grande schermo, posto sul fondo dello scenario, alle spalle di Cristicchi, che descrive, da voce narrante presente, filmati e fotografie d’epoca, con i morti accatastati, i volti sorridenti delle foto d’album di persone fatte letteralmente a pezzi, straziate e rese irriconoscibili dalle esplosioni. A ricordare il passato, i bambini scomparsi senza una lacrima del resto del mondo, Cristicchi chiama in scena una bellissima bambina di dieci anni, che si fingerà morta tra le sue braccia, come i bimbi di tanti padri e di tante madri, ai quali non è stato concesso di godere del privilegio della pace. Spettacolo da non perdere assolutamente!


di Maurizio Bonanni