Herlitzka da applausi al “Piccolo Eliseo”

mercoledì 20 novembre 2013


Al “Piccolo” dell’Eliseo di Roma va in scena, fino all’8 dicembre 2013, lo spettacolo “Il Soccombente”, tratto dal romanzo - a carattere autobiografico - “The Loser”, di Thomas Bernhard, con uno straordinario Roberto Herlitzka nel ruolo di voce (Io) narrante protagonista. L’opera - innanzitutto letteraria e, poi, teatrale - ruota sul fittizio rapporto tra il famoso pianista canadese Glenn Gould e due suoi immaginari giovani compagni di studio: Wertheimer, il “Narrato”, definito da Gould stesso “il soccombente”; e l’altro, l’io narrante-Herlitzka, carico di anni e di ricordi. Luogo dell’incontro: il Mozarteum di Salisburgo, negli anni Cinquanta del secolo scorso, che vede i tre musicisti allievi del più famoso maestro, Vladimir Horowitz.

L’abilità estrema dell’arte recitativa di Herlitzka consiste nel condurre, con eleganza, il suo pubblico all’interno degli spazi metrici della follia ragionata, in cui si muovono come fantasmi i protagonisti della vicenda, resi carnali da un racconto livido, sanguigno, fatto di tempeste e di calme piatte, senza vento, che solo un attore di consumata abilità è capace di rendere nella giusta misura. Così, veniamo gradualmente a scoprire l’odio viscerale dei tre musicisti per il pubblico e per la musica stessa, mentre osserviamo dalla feritoia della serratura quel primo, tragico impatto di Wertheimer, con la perfezione stilistica di Gould e delle sue “Variazioni Goldberg” di Bach, suonate sotto lo sguardo attento di Horowitz.

Alla fine, i due lasceranno il Mozarteum in uno stato di profonda depressione, per non suonare mai più: Wertheimer dopo qualche anno commetterà suicidio (alla stessa età in cui morirà Gould, stroncato da un ictus) e l’altro - il suo doppio, il narratore ossessivo, mordace e autocritico all’estremo - si ritirerà nella più completa oscurità, dell’anima e della mente. Perché il talento di Gould è puro veleno per entrambi, che accusano i loro maestri del Mozarteum di non essere in grado d’incidere in loro l’arte sublime di Gould, clonandone il genio pianistico. Lui, il sublime, il virtuoso creativo per eccellenza, realizza la sua piena indipendenza stilistica attraverso la passione per le complessità strutturali della musica, che lo proiettano molto oltre il repertorio pianistico standard.

Al centro di tutto, l’ossessività delle Variazioni Goldberg, che provocano al Narrato lunghi anni di notti insonni, in compagnia del solo suono ossessivo di un pianoforte, destinato a diventare uno strumento di tortura e, quindi, di morte per consunzione. In uno sfondo scenografico murato da enormi lavagne nere, sono dispiegati i vari quadranti della follia, descritti dall’Io come in un repertorio di anatomia patologica, con le mani sezionate e i tendini utilizzati per separare le righe di uno spartito, che non ammette di essere addomesticato da interpretazioni mediocri. Un gesso bianco candido traccerà a quattro mani i disegni infantili delle scene rievocate dal ricordo: la rupe; il quartiere; i cerchi concentrici d’inviluppo della propria disperazione. Nel catino dantesco, che raccoglie, come un’acquasantiera sconsacrata, le debolezze umane, Herlitzka ci fa scoprire che la depravazione è il precipitato naturale di quella pozione torbida e avvelenata, in cui si bagna l’estremo rigore dei comportamenti conformi.

Ed è così che il principio di Thanatos scorre ora lento, ora veloce, nel pentagramma del racconto, incuneandosi in locande luride, per un’operazione di puro voyerismo. Una voce femminile ripete per tutto il tempo della rappresentazione, con voce monotona, atonale, esasperata da una cadenza ossessiva, una frase, sempre la stessa, “in quella locanda…”, per irradiare la macchia cieca di un perfezionista ossessivo, come Wertheimer, colto dentro un letto che sa di sporcizia, con una donna laida e sensuale, additata di giorno come “pubblica moglie”.

Poi, i giorni dell’esilio volontario, della fuga da tutto, di un Wertheimer blindato in una grande casa, con un’unica sorella, devota e succube, alla quale nega persino una stanza riscaldata, e ne conta i passi in libera uscita, obbligandola a notte fonda, pur di lenire la propria insonnia, a suonare per ore il piano, per poterla poi insultare e irridere, poche ore dopo, durante la colazione del mattino. Finché, quasi miracolosamente, lei lo lascia e si sposa. Da lì, il crollo definitivo di un essere già pienamente fallito, che concepirà l’ultima, delirante vendetta: impiccarsi a poche decine di metri dalla residenza della sorella e di suo marito. E ancora prima, l’apogeo della follia, con Wertheimer che ordina un pianoforte completamente scordato, pur di torturare per giorni e giorni i suoi sfortunati ospiti.

La regia, con una scelta ad effetto, ha voluto associare un’assistente femminile all’Io Narrante-Herlitzka, vestendola con una camicia da notte di un bianco immacolato, per assumere pose ora di Erinni, ora di statuina manierata, che ruota rigidamente su se stessa, al suono di un invisibile e silenzioso carillon. E il colloquio della incomunicabilità tra loro due è una strana danza attorno a un’unica poltrona girevole che, ruotando e cambiando seduta, fa da metronomo e da separatore tra i diversi, autonomi segmenti del racconto, da parte dell’Io-Narrante. Un autentico pezzo di bravura, da mettere tra i ricordi più belli, per chi deciderà di condividere il dramma teatrale di un… “Soccombente”!


di Maurizio Bonanni