D’Annunzio, un secolo e mezzo dopo

martedì 12 marzo 2013


“In principio era il Verbo”, cioè la Parola nella sua essenza originaria, di suono puro e indifferenziato, dalla cui modulazione sarebbero derivati una serie di suoni, i quali, mescolandosi variamente fra loro in una innumerevole quantità di combinazioni ("che la bocca non può dire e l'orecchio non può udire", ma di cui si può avere un’idea se si pensa che solo da Iahveh vengono fuori altri settecentodiciannove vocaboli), avrebbero dato origine alle cose e alle parole stesse. "Nessuna cosa esiste dove manca la parola", diceva Stefan George. E Martin Heidegger si domandava: "Che cos'è la parola per avere tale potere?”. A buon diritto, dunque, d'Annunzio esclamava: "O poeta, divina è la Parola: / ne la pura bellezza il ciel ripose / ogni nostra letizia e il Verso è tutto". Ogni cosa, quindi, è riconducibile alle parole - o generalmente al suono e alla vibrazione - e ciò significa che lì risiede la scienza suprema e che chi la conosce conosce tutto, in quanto tutto esiste solamente per mezzo della parola. E la Parola, il Verbo, come dice Giovanni, è Dio, il quale, dunque, è Egli stesso sostanza del Creato, che nasce non dal nulla ma dalla manipolazione dell’essenza divina, come Proteo, il dio greco, capace di assumere qualunque forma volesse.

E’ in questa chiave che va letta, così come la Creazione, l’opera poetica di Gabriele d’Annunzio, il quale ha del mondo una visione panteistica, identificando Dio con l’universo. E' noto che i mistici orientali riescono a stabilire un contatto con l'assoluto, o ad avvertire il divino, recitando dei suoni particolari, chiamati mantra, di cui AUM è quello principale, che sta alla base del mondo sensibile. Bene, per d'Annunzio la parola ha la stessa funzione, quella cioè di fargli sentire ed esprimere il divino che è in lui, che è in tutti noi. Che mera¬viglia, quindi, e quale rimprovero si può muovergli se ha fatto della parola lo strumento fondamentale della sua poesia? "Parola, o cosa mistica e profonda; / ben io so la tua specie e il tuo mistero / e la forza terribile che dentro / porti e la pia soavità che spandi!". La parola di d'Annunzio - gridano i suoi detrattori (e purtroppo ce ne sono ancora molti) - è priva di contenuto. Intanto non è detto che la poesia debba avere sempre e soltanto dei contenuti e non possa anche essere affidata alla pura e nuda musicalità della parola (altri¬menti dovremmo dire che i musicisti sono inferiori ai poeti), e poi la parola non esclude i contenuti ma li rac¬chiude, confusi, dentro di sé. L’ispirazione, l’estro poetico o artistico in generale, così come l’intuizione, è un lampo, una sorta di nebulosa o una macchia informe, in cui l’artista riesce a cogliere un contenuto, un concetto, talché forma e contenuto non sono due cose distinte. Se d'Annunzio - come dice Francesco Flora - "quasi ignorò la parola in cui si compone la sostanza speculativa e logica delle cose" fu perché delle cose egli ebbe una visione armonica e totale, che lo portò ad immedesimarsi anche nel mondo animale e vegetale, che pure è presente nell'uomo.

Per d'Annunzio, come e più ancora che per Baudelaire, la natura è un tempio, a cui si accede con religioso silenzio, spogliandosi del pensiero, ma per poterlo cogliere nella sua purissima essenza, nei suoi più profondi e segreti significati: "Taci. Sulle soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane; ma odo / paro¬le più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane". D'Annunzio avvertì come pochi la presenza di Dio nella natura, si sentì, come Dante, trasumanare, soprat¬tutto nell'ora del meriggio, che fin dai tempi più antichi ha sempre destato negli uomini, in quell'atmosfera sospesa e rarefatta dall'afosa calura estiva, il senso terri¬bile del numinoso: "... E la mia forza supina / si stampa nell'arena, / diffondesi nel mare; / e il fiume è la mia vena, / il monte è la mia fronte, / la selva è la mia pube, / la nube è il mio sudore. / E io sono nel fiore / della stiancia, nella scaglia / della pina, nella bacca / del ginepro: io son nel fuco, / nella paglia mari-na, / in ogni cosa esigua, / in ogni cosa immane, / nella sabbia contigua, / nelle vette lontane /… E la mia vita è divina". In nessuna lirica, di qualsivoglia poeta, c'è, come in Meriggio, una tale purezza e profondità di pensiero, una con¬templazione assorta e insieme una partecipazione così viva e sentita della natura divina, venata da una sottile, ineffabile malinconia: l'estasi, infatti, e tale è anche quella di d'Annunzio, non è felicità nel senso in cui comunemente s'intende: è, come dice Evola, un "misto di beatitudine e di amarezza".

Anche d'Annunzio, che pure si definisce "tecnico peri¬tissimo", avverte spesso l'insufficienza o l'incapacità della parola a descrivere appieno ciò che egli sente (“perché a risponder la materia è sorda”). E come della parola, così avverte l'impaccio della carne, che pur gli permette di elevarsi a quelle altezze, perché è in virtù della carne, è in virtù della materia che lo spirito s'in-nalza e acquista maggior forza e maggior valore. Da qui il tormento del Poeta, che come in tutti i poeti, è sempre il tormento di dire; da qui la ricerca, faticosa, esasperata, di quella parola di cui egli pur sente il suono dentro di sé ma che in realtà non trova nel linguaggio umano un'espressione, una formula corrispondente. In molti passi delle sue opere d'Annunzio stesso accenna al tormento e al processo della parola che si svolge dentro di lui. Scrive nel Venturiero senza ventura: "Talvolta è in noi una verità ancora informe che vuol essere soccorsa per venire alla luce: una verità ancor mescolata al nostro sangue, ai nostri muscoli, ai nostri istinti". E nella Leda: "Vi sono parole che sembrano crearsi nell'aria indistinta e non portare la forma delle labbra note. Vi sono le parole delle cose e non soltanto le lacrime delle cose, reali le une e le altre. Udendo quelle, non le attribuimmo a una gola amica ma a uno spirito che dimorasse in quel luogo o vi passasse".

Nel suo fondo e a suo modo d'Annunzio fu un mistico, un veggente che ascolta la voce di Dio, quale essa si esprime senza svelarsi, cioè al di là di ogni contenuto particolare. Ed è quella la voce più schietta, la più autentica e universale. Qualunque contenuto riguarda propriamente l'aspetto umano, e perciò temporaneo, di Dio. Al di là del relativo e del contingente non c'è che il simbolo, ed è a questo che d'Annunzio, come e più degli altri poeti del suo tempo, volle e seppe attingere nella misura più piena. Si obietta che, essendo aperto e disponibile a tutto (“tutto fu ambito, tutto fu tentato”), d’Annunzio nascondeva un vuoto di contenuti e di problemi, talché di lui resterebbero solo la capacità e l’autenticità nel cogliere gli aspetti del reale e la sorprendente abilità nel rappresentarli, in una fusione di tutti i dati del suo essere, con una sensualità - l’espressione è sua - “rapita fuori dei sensi”. Ma ammettiamo pure ch’egli fosse impastato di sesso, riconosciamo, però, che mentre rivive poeticamente sulla pagina le sue esperienze sessuali, in virtù della parola egli se ne libera. Persino l’osceno diventa poesia, come nella Passeggiata del Poema paradisiaco: “Dicono che nel folto de le chiome / voi abbiate una ciocca rossa come / una fiamma: nel folto chiusa… / Io la penso, e la veggo fiammeggiare”. Il Poeta, cioè, in una prima fase vive materialmente le sue esperienze sessuali, tuffandovisi dentro e immergendovisi sino al limite estremo, ma in una seconda fase (attraverso l’arte e la parola) se ne libera, ritorna all’assoluto, seguendo il cammino inverso, con un procedimento opposto: s’imbestia, per indiarsi, come fa anche Dante, che se non scendesse nell’inferno non potrebbe salire in paradiso così libero e così purificato.

La poesia è trasfigurazione della realtà nella dimensione dell’arte, ed è alla poesia che noi dobbiamo guardare: lasciamo perdere l’uomo, lasciamo perdere quello che c’è dietro e appaghiamoci della suggestione che suscita la parola, fermiamoci lì, perché dobbiamo sempre cavillare, cercare il pelo nell’uovo, di proposito e con ostinazione, come dei pubblici ministeri che conoscono solo l’accusa? I contenuti, i problemi, le istanze sociali e così via sono cose relative, si possono trattare, se ne può discutere, ma alla fine l’uomo ha il compito di liberarsene, una volta che le abbia provate, e deve provarle, perché è per questo che l’uomo nasce. Così è delle passioni: astenersene a priori è meno meritevole che provarle e liberarsene. Qualcuno obietterà che questo è il modo di vedere di un saggio, ma da quale punto di vista, da quale altezza, a un certo momento, si deve guardare la vita se non dai “ben muniti castelli edificati dalla serena speculazione dei saggi”? Quale vuoto, dunque, in d’Annunzio? Come può essere un vuoto questo immergersi nella natura, questo panismo, quando assistiamo - col Decadentismo (che non è sinonimo di decadenza) - al dissolversi dell’io e all’instaurarsi di un rapporto nuovo, più alto, per intuizione non per via logica, con le cose, con gli uomini e con Dio? Ma la critica faziosa non si accontenta di queste riflessioni, non si appaga, non si arresta, perché manca, se non proprio di sensibilità, della sensibilità necessaria per capire e apprezzare d’Annunzio. Ma manca anche di intelligenza. E così prosegue e insiste, osservando che sì, il Poeta ben entrò in questo mondo inesplorato dell’io ma con un bagaglio di retorica e utilizzando la parola non come mezzo ma come fine.

E a conclusione di tutto il discorso sostiene, come per Carducci, che il vero o il migliore d’Annunzio va cercato nelle poesie intimistiche, che è come dire in un mondo personale, individuale e relativo. E’ sorprendente come in d'Annunzio la parola, che pure è tutto per lui, finisca con lo scomparire, dissolven¬dosi nella pura musicalità: tale è il suo magico potere, e tale è l'arte del Poeta. "La parola che scrivo nel buio", dice nel Notturno, "perde la sua lettera e il suo senso. E' musica. Le ore passano. La musica è come il sogno del silenzio". E ancora: "A volte i suoni e i frammenti dei suoni e le pause diseguali si confondono in una sola armonia che si porta con sé la mia tristezza e qualcosa di ancor più triste che la mia tristezza". In quel buio, dice il Poeta, ogni cosa "perde la sua sostanza e si tramuta in un sentimento che è musicale come le cadenze delle lamen¬tazioni". In Italia nel secondo dopoguerra la critica ufficiale, di sinistra, cominciò a denigrare d’Annunzio, così come ridimensionò la figura di Carducci riconoscendo in lui solo il poeta, “tardo romantico”, delle Rime Nuove, di “Pianto antico” e di “Davanti San Guido”, perché tutto ciò che sapeva di patria e di antichità andava bruciato dal sole dell’avvenire. La denigrazione andò avanti per più di mezzo secolo, e dura ancora, anche se in tono minore. Nelle scuole un professore su dieci, forse, parla bene di d’Annunzio. In un articolo, apparso il 21 marzo 1988 sulla Terza Pagina del Giornale di Montanelli e intitolato “D’Annunzio: lo ammiro ma con disagio”, Manlio Cancogni, non pago di denigrare il Poeta (di cui, con palese contraddizione, riconosceva implicitamente il valore), se la prendeva anche con l'uomo, definendolo "goffo, mingherlino e dal sede¬re di anno in anno più rotondo", un "cafone", che "tale è rimasto nonostante i suoi sforzi per mascherarsi", un "rudere privo d'interes¬se e di significato", un "mobile tarlato e inutilizzabile" da "mandare in cantina", un "fenomeno grottesco, capace solo di ispirare un'immediata istintiva ripugnanza non disgiunta da un senso irresistibile di comicità e una soverchiante sensazione di falsità, di ar¬tificio, di sforzo e in definitiva d'irrealtà".

E che cosa aveva letto Cancogni di d'Annunzio? Lo confessava egli stesso: "Non lo conoscevo molto, è vero, avevo letto qua e là delle poesie, scegliendo forse, non dico di no, fra le peggiori delle Laudi, ma il mio rifiuto era totale. Intanto lo rileggevo, o, per esser sinceri, lo leggevo, ma ero come diviso in due. Come critico dovevo riconoscere la bra¬vura, la versatilità, il talento del Vate, come lettore il fastidio prevaleva sempre sul giudizio". E per giustificare il suo fastidio arriva¬va a dire che "interrogato privatamente" ogni poeta o narratore contemporaneo avrebbe risposto allo stesso modo. Il "catoncello stercorario" (per usare un’espressione di d’Annunzio) non risparmiava nemmeno le donne amate dal Poeta, delle quali diceva che, "nonostante i loro nomi altisonanti", in realtà erano delle "mezzo burine, mezzo analfabete, figlie di un'aristocrazia piuttosto rozza e incolta", che "il cafone nobilitava". In un altro articolo, apparso il 26 settembre 1991 su La Repubblica, Beniamino Placido irrideva alla "vocina fessa" del Poeta, che definiva "cretino", precisando che "i termini stupido, imbecille e cretino non sono affatto equivalenti, perché Carducci era stupido, Pascoli era imbecille, mentre D'Annunzio era proprio cretino". Sono solo due esempi della critica faziosa e viscerale che per tanti anni si è esercitata contro il grande Pescarese, che, come spesso accade da noi, ha trovato maggiore consenso e ammirazione fra gli stranieri, soprattutto presso i francesi, che lo considerano uno dei massimi scrittori della letteratura europea. Philippe Jullian, nella sua biografia del Poeta (1971), scritta in Italia, dopo aver detto "Verità al di là delle Alpi, menzogna al di qua" (cioè nel nostro Paese), e ricordato che “per quanto l’Italia ci sia vicina le sue regole di vita da sessant'anni a questa parte si dif-ferenziano vistosamente dalle nostre", aggiungeva: "Per gli italiani di oggi D'Annunzio ha il torto di essere stato troppo legato al fascismo. Si preferisce non parlarne: il suo lirismo è sorpassato, il suo senso dello splendore odioso a una letteratura di sinistra. Chi si occupa di lui cerca le sue zone d'ombra, i suoi misteri, e volta le spalle a certe glorie ritenute di cartapesta”.

E dopo avere osservato che un paese come l’Italia non sa che farsene di esempi di eroismo, si lamentava che sulle pareti del Campidoglio non esistesse una targa a ricordare almeno qualche famoso discorso del Poeta, che grandi città, come Milano, avessero tolto dalle loro piazze la dedica a Gabriele d'Annunzio e che a Roma un solo viale che sale al Pincio portasse il suo nome. E così concludeva: “Questo caso unico di un paese che si vergogna del suo più grande scrittore riflette vistosamente la mediocrità della democrazia cristiana”. Fra le tante corone che dopo la morte di d’Annunzio sono state deposte al Vittoriale ce n'è una di Romain Rolland, che reca questa scritta: "Fu, nel declino del XIX secolo, in un'Italia spenta e incolore, un'appari¬zione indimenticabi¬le. Risvegliò la terra della Bellezza". Fra i critici italiani più illustri, che hanno ammirato d'Annunzio senza disagio, bastano due nomi: Ugo Ojetti e Francesco Flora. Dice Ojetti: “La vera vita di Gabriele d’Annunzio s’ha ancora da scrivere, con fedeltà all’uomo e al poeta, mostrando che non sono due, e opposti, ma uno, e coerente. Occorre che anni passino perché una siffatta vita, ordinata e chiarificata dalla lontananza, possa essere scritta. Questo fedele dell'amore ha sofferto per l'amore quanto e più d'un altro uomo, perché, a scrivere, le sue stesse parole precise e concrete gli aumentavano il rovello.

Dalle sue pene, dalle offese della propria debolezza o della propria forza, dalle difficoltà della sua vita 'inimitabile', dalla sua stessa vecchiezza, egli s'è sempre liberato sfuggendo verso l'alto, per riafferrare nell'altezza sul mondo il sogno della propria essenza divina, la capacità d'immillarsi e d'indiarsi a volontà, di trovare negli eccelsi un lampo di solare bellezza e, se si può dire, d'eternità". E Francesco Flora: "Ognuno di noi che alle lettere ha dedicato la sua profonda moralità riconosce in D'Annunzio un alto familiare che arricchì la nostra vita di miti poetici e alate illusioni. E se il Dannunzianesimo fu un nemico da vincere, noi, per una poesia che ci aiutò a vivere, dimentichiamo tutto quel che è terrestre: diciamo gloria a D'Annunzio e alla innocenza poetica che riscattò il limo di Adamo. E' tempo che l'eredità dannunziana sia considerata in quel che ha di positivo, gl'inganni non sono più possibili. E quando l'arte si rifaccia troppo pumicea e scura, inviteremo a rilegger D'Annunzio per ritrovarvi quel senso di vitalità solare che da tante sue pagine si comunica e si sparge".


di Mario Scaffidi Abbate