L'Islam assassino di Aby Sayyaf

mercoledì 20 febbraio 2013


Quattro mesi prima delle Torri Gemelle i terroristi di Abu Sayyaf presero alcuni ostaggi occidentali nelle Filippine, per lo più turisti e cooperanti, e li fecero vivere nella giungla delle isole del sud come delle bestie. Questo film di Brillante Mendoza con Isabelle Huppert che in Italia viene distribuito un anno dopo la sua presentazione alla Berlinale del 2012, titolo “Captive”, che appunto significa prigioniero, in soldoni parla di questo. Ma parla anche della inevitabile sindrome di Stoccolma tra ostaggi e terroristi. Racconta le scene di gioia dei rapitori, alcuni semplici bambini terroristi, quando una radiolina nella giungla racconta dell’impresa criminale di Mohammed Atta e degli altri 11 killer di bin Laden. Fa vedere la dittatura della pseudo morale dell’islam fanatico, con i rapitori che costringono le donne a velarsi e a lavarsi senza mostrare il corpo nella paludi delle isole del sud delle Filippine. Alcune di loro vengono sposate e a forza dai terroristi che in pratica le stuprano seguendo presunti dettati del Corano. Ogni omicidio viene salutato con un “Allah u Akbar”.

Oggi sembra passato un secolo. C’è la crisi, di quella fazione dell’islam assassino non importa niente a nessuno tranne che a chi ci capita in mezzo. Eppure questo film girato con tecnica super 8, per dare ancora di più angoscia e mal di mare allo spettatore, colpisce alla testa e non solo allo stomaco. “Captive” infatti porta sul grande schermo un’odissea realmente vissuta da un gruppo di sequestrati tra cui un’assistente sociale francese, che ha il volto di Isabelle Huppert. La pellicola racconta in modo crudo e realistico quell’avventura nelle Filippine tra il mare e la giungla, le repentine fughe e gli estenuanti scontri tra i rapitori, separatisti islamici del gruppo Abu Sayyaf, i militari che li inseguono e i 20 turisti finiti in un incubo durato oltre un anno. Gli ostaggi vengono trasportati con un barcone da pesca nell’isola di Basilan, attraversando centinaia di chilometri nel mare di Sulu per diversi giorni. Durante il viaggio in questo mare pazzesco e ignoto, vengono uno ad uno interrogati al fine di determinare il prezzo del loro riscatto. Sull’isola di Basilan, il gruppo è immediatamente inseguito dai militari. Il riparo che trovano in un ospedale nella città di Lamitan è breve: esplode subito uno scontro a fuoco. I terroristi riescono a fuggire con gli ostaggi, portando con se anche tre infermieri e un inserviente dell’ospedale. Dopo un’estenuante camminata nella giungla, in cui sia gli ostaggi che i rapitori devono affrontare una natura estremamente ostile, il gruppo si stabilisce in un campo nel mezzo delle montagne di Basilan. I membri dell’Asg e i suoi sostenitori, come anche la popolazione che simpatizza per la loro causa, vanno e vengono portando rifornimenti e munizioni.

Therese e gli altri assistono alla devozione che il gruppo ha per la causa e al loro legame con la guerra. E qui scatta la "sindrome di Stoccolma" di cui sopra. Con i soldati alle calcagna, ostaggi e i rapitori sono costantemente in fuga, lasciandosi alle spalle, uno dopo l’altro, i campi temporanei. A causa degli spari indiscriminati dei militari, gli ostaggi non hanno altra scelta che tener duro insieme ai rapitori. Gli attacchi di artiglieria diventano sempre più violenti, gli ostaggi sono coinvolti in una vera e propria guerra. Therese e gli altri prigionieri cercano di non perdere la speranza, ma si rendono conto che, nonostante la ricerca incessante, l’esercito non sta facendo molto per salvarli. Non sanno che il loro estenuante calvario, fisico e mentale, durerà per più di un anno. E che alcuni di loro non ne usciranno vivi. Il film è stato presentato qualche giorno fa all’ambasciata di Francia a piazza Farnese da Nomad distribution. La cosa incredibile è che un lavoro di Mendoza con la Huppert su un tema così sensibile fatichi un anno per trovare uno straccio di distribuzione in Italia. Forse i cinema chiudono a raffica anche per questo motivo.


di Dimitri Buffa