La storia del sistema sanitario nazionale

venerdì 8 febbraio 2013


In questa seconda puntata, Aldo Spallone riassume altri punti cruciali del suo diario. Nei passi che seguono ha cercato di ricostruire la storia dell’introduzione del “Sistema sanitario nazionale”. Soprattutto l’impatto che il processo ebbe nell’organizzazione sanitaria del Lazio, di Roma in particolare. Spallone, come neurochirurgo e ricercatore, analizza un processo che è stato da lui vissuto in prima persona. Rammentiamo che nei suoi lunghi soggiorni in Russia ed Usa, dove ebbe modo di conoscere personalmente i numi tutelari della dottrina sanitaria sovietica come del sistema assicurativo americano, fece propri input e suggerimenti per correggere le anomalie italiane.

Il mio scritto non pretende d’essere altro all’infuori d’un racconto. Fatti, situazioni e circostanze che ho cercato di narrarvi nel modo più obiettivo possibile. Affinché il lettore possa avere a disposizione gli elementi per formulare un proprio giudizio. In particolare per comprendere, almeno per grandi linee, come è stato prodotto il colossale deficit della sanità laziale. Come accennato nella premessa, a questo scritto seguirà una mia disamina scientifica sulla storia più recente del “Sistema sanitario” della nostra regione. Corre obbligo rammentare che ancora negli anni ‘60 la burocrazia sanitaria era scarsa. La logica del mercato era preminente ma non prevaleva, almeno in apparenza, sull’interesse del malato: anche perché il medico italiano, di qualunque categoria facesse parte, aveva un atteggiamento d’attenzione quasi religiosa nei confronti della sofferenza, che gli derivava dalla sua stessa formazione (almeno così come essa veniva imposta dai maestri di quel periodo). Questo fatto costituiva un correttivo importante nei confronti delle potenziali criticità del sistema. C’erano ovviamente esempi di medici imprenditori, molto più imprenditori che medici (si ricordi il medico della mutua interpretato magistralmente da Alberto Sordi) ma erano eccezioni.

Contemporaneamente, iniziative di questo tipo venivano intraprese anche da enti religiosi, come conseguenza della naturale inclinazione della Chiesa ad occuparsi della salute dell’uomo: atto di carità e sollievo dalla sofferenza, ma anche propensione naturale a proporre soluzioni proprie ad un mercato che si stava formando, quello appunto dei mutuati, diverso dai potenziali utenti del sistema ospedaliero romano controllato dal Pio Istituto. Il fatto che Roma, la capitale, fosse la città più popolosa d’Italia, ma anche il centro di attrazione principale per i pazienti di tutto il paese (a parte chi cercava la soluzione dei propri problemi sanitari all’estero) era la logica di deregulation che vigeva allora: stimolò la nascita di diverse realtà sanitarie private, che cercavano e trovavano accordi convenzionali con le Mutue. Questo comportò che, al momento della nascita del Ssn, si trovò a dover assorbire, nel Lazio, una quantità di strutture convenzionate decisamente sproporzionata rispetto al resto del paese. Inoltre la presenza di un’importante componente di cliniche di proprietà di Enti religiosi, cosa del tutto comprensibile data la presenza radicata del Vaticano nel tessuto sociale ed economico del Lazio, e la conseguente naturale influenza della Chiesa cattolica, complicava ulteriormente il panorama che la profonda opera riformatrice intendeva regolamentare.

Nel 1978 fu varata la legge di riforma della Sanità Italiana, introduceva il concetto di “Sistema sanitario nazionale”. Il primo effetto visibile della riforma fu l’introduzione di regole organizzative fino ad allora sconosciute. Se prima per aprire una struttura clinica era sufficiente il permesso del “Medico provinciale”, e per avere una convenzione era sufficiente accordarsi con una mutua, con l’introduzione del sistema tutto veniva regolamentato, e rigidamente. Con regole e norme sempre più complesse, le quali richiedevano una conoscenza sempre più approfondita delle stesse, ed anche sempre più personale specializzato per studiarle, proporle, applicarle, verificarle. Lo scrivente ha vissuto, e da giovane medico, questa trasformazione epocale. E’ stato allora che questo personale che ha cominciato a popolare gli uffici delle neonate organizzazioni, messe in piedi per fare funzionare il Ssn: all’epoca appellate in varie maniere, ma che erano gli embrioni delle attuali Asl. Uffici costituiti da un esercito di funzionari dei vari partiti e sindacati, di scarsissima professionalità, ai quali era stato deciso di dare uno stipendio fisso. Successivamente due leggi nazionali, una di stampo liberale (aziendalistico) la 502 varata nel 1992 su proposta dell’allora ministro De Lorenzo, e l’altra più rigida, la 229 approvata su proposta del Ministro Bindi nel 1999: hanno inteso regolamentare ed adeguare il sistema ai tempi, definendo nei dettagli i suoi meccanismi di funzionamento. Il tempo ha certamente affinato i processi, i funzionari coinvolti hanno sviluppato indubbiamente una propria professionalità, giustificata dalla stessa complessità del sistema. E’ naturale chiedersi quanto tutto questo abbia una giustificazione obiettiva, e quanto questa complessità burocratica (con cui gli operatori devono fare i conti tutti i giorni) non sia risultato di mera autoreferenzialità.

Chi scrive ha toccato con mano la nuova realtà delle Ssn. Quando a metà degli anni ’80 cominciava a lavorare presso l’Ospedale Sant’Eugenio: il nosocomio aveva stipulato un accordo convenzionale con l’Università di “Tor Vergata” (allora di recente istituzione), presso la quale lo scrivente afferiva dopo essere tornato da un lungo periodo trascorso negli USA . In precedenza avevo lavorato presso il Policlinico Umberto I, dove le varie cattedre funzionavano in totale autonomia: in genere svolgevano un’ attività clinica che si completava nel corso della mattinata, i pomeriggio era riservato all’attività privata. In quegli anni vissuti al Sant’Eugenio, vidi prendere corpo l’immagine della burocrazia sanitaria, rappresentata da un numero imprecisato di figure, e con competenze che frequentemente s’incrociavano, capitanate da uno strano organismo che si chiamava “Comitato di gestione”, in cui erano presenti (e comandavano) i vari partiti, i cui rappresentanti non sempre (anzi quasi mai) erano all’altezza dei compiti loro assegnati.

Come si è detto sopra, il sistema si è evoluto, come in genere si è evoluta la società, attraverso processi di trasformazione, evidenziati dalle scelte politiche del momento. Le Usl sono diventate Asl, gli ospedali maggiori sono diventati aziende autonome, i Comitati di gestione sostituiti da un’organizzazione di tipo aziendale al cui il vertice viene posta una triade con competenze ben specificate. Nel frattempo il personale ha acquisito una professionalità propria, che consente di utilizzare regole utili a muovere i processi. Ma i risultati non sempre sono buoni. Perché i tempi della burocrazia non sono mai certi, e la trasparenza è un miraggio, come suggerito chiaramente dai numerosi scandali che ciclicamente affliggono la sanità e che in tempi recentissimi hanno costituito la ragione principale della cadute anzitempo delle due più rappresentative Giunte regionali

Un impatto fondamentale nel processo di implementazione del Ssn è stato indubbiamente rappresentato dalla legge di riforma 229/99, proposta dall’allora ministro Onorevole Bindi. Risale alla fine degli anni ’90, ancor più della precedente legge 502/92, che la legge “Bindi” intendeva appunto “riformare”. Quello di aver fatto progredire un difficile processo, che avrebbe dovuto portare a maturazione un sistema complesso di organizzazione sanitaria, costituisce un indubbio merito della legge e di chi l’ha proposta. Parecchi anche i demeriti, in genere legati alla visione assolutista ed integralista con cui fu concepita. Una visione nella quale per il privato non c’era spazio, senza a tale proposito considerare minimamente le notevoli implicazioni ed i notevoli carichi economici che una scelta del genere avrebbe comportato. Il fallimento della cosiddetta “Legge Bindi”  è a tutti evidente  e da tutti riconosciuto, ad eccezione forse di chi l’ha proposta. Basta citare due fatti: il controllo feroce e vessatorio che essa imponeva a chi, dipendente pubblico, svolgeva attività privata, ed a cui ha fatto seguito, come reazione, il fatto che, in tempi diversi e con un’atmosfera diversa, molti medici dipendenti pubblici attualmente non hanno remore nell’indirizzare verso una  struttura totalmente privata chi non vuole sopportare una lunga lista d’attesa (e da nessuno controllata). L’enorme spreco di denaro pubblico, gettato via per costruire i cosiddetti spazi per l’attività intramoenia dei medici dipendenti di strutture pubbliche, che non ha portato a nulla, perché nulla o quasi è stato costruito. Quando sarebbe stato possibile attribuire tale funzione alle cliniche convenzionate presenti all’epoca, che così si sarebbero automaticamente riconvertite (il tutto a costo zero, mentre la cifra stanziata per la costruzione degli spazi per l’attività intramuraria si aggirava intorno ai due miliardi di euro). Non ci sarebbe stato bisogno di molta fantasia, perché bastava copiare la Grecia.

(2/continua)


di Aldo Spallone