Quelle oscure ombre di Algeri

martedì 11 dicembre 2012


«Se tu parli, muori; se non parli, muori. Allora parli e muori». Con questa drammatica frase Tahar Djaout, nel 1993, concludeva i suoi ultimi articoli prima di morire sotto il fuoco dei terroristi. Il coraggio spesso è una scelta obbligata. Specie per i giornalisti che sono morti da eroi in Algeria per narrare la genesi di Al Qaeda nel Maghreb e della fase due del terrorismo islamico nel mondo. Lo racconta, sin dall’introduzione, questo bellissimo e fondamentale libro di Souad Sbai (“Le ombre di Algeri”, Armando Curcio editore), deputata del Pdl nata in Marocco ed esperta del settore anche per avere seduto per anni nella inutile Consulta dell’Islam italiano voluta dal governo di centrosinistra per tentare, invano, di dare una rappresentanza comune ai cittadini, italiani e non, di religione musulmana presenti nel Bel Paese.

La Consulta, come è noto, finì in vacca per l’impossibilità di conciliare la “welt und schauung” dell’Ucoii, di fatto interfaccia dei Fratelli musulmani in Italia, con quella dei moderati e in genere di tutti gli altri. Ma le lotte della Sbai per l’emancipazione femminile delle donne islamiche in Italia sono rimaste. Anzi rappresentano uno dei pochi aspetti da salvare della politica italiana degli ultimi anni. La Sbai non ha tradito mai la verità con scuse demagogiche, magari nascondendosi dietro il dovere di servire il paese come parlamentare, con le consuete cautele ipocrite del politicamente corretto. Accusata dagli islamisti radicali, dagli ultra-nazionalisti e da certi estremisti di sinistra e benché sia stata parecchie volte minacciata, Souad Sbai non ha mai rinunciato a proseguire la sua missione in difesa della laicità, delle minoranze religiose e delle donne perseguitate nel mondo, e specificamente nel mondo islamico, ormai ostaggio dei salafiti e dei Fratelli Musulmani che hanno trasformato rapidamente la Primavera araba in un infinito incubo: l’ “inverno islamista”.

Quello che sta succedendo in Egitto con Morsi in questi giorni, in Siria con Assad da mesi e in Libia nell’ultimo periodo di regime di Gheddafi, e poi ancora peggio dopo la sua morte cruenta (e dopo il caso dell’ambasciatore americano ucciso dopo essere stato persino sodomizzato dai ribelli), dimostra che la lucida visione di quei pochi che come la Sbai chiamano le cose con il loro proprio nome è l’unica possibile. La Sbai riassume la propria visione del mondo con questa frase: «La decolonizzazione ha ceduto il passo a un fondamentalismo che neanche il più temerario degli uomini è stato in grado di sconfiggere». In Italia però si sta creando un autunno della politica estera, soprattutto per quel che riguarda il rapporto con i paesi arabi e con Israele. Il recente voto europeo, Italia inclusa, a favore del riconoscimento dell’inesistente stato di Palestina all’Onu nel ruolo di “osservatore”, letteralmente comprato dall’Emiro del Qatar, con i suoi viaggi di stato che lo hanno preceduto in un continente ormai povero capace di sacrificare i propri principi costituzionali in cambio di investimenti e anche della semplice promessa di questi ultimi, testimonia la drammaticità della situazione.

Ma la Sbai non invoca improbabili “radici cristiane” dell’Europa come diga all’Islam, come da tempo fa, ad esempio, un intellettuale di grande peso e onestà intellettuale come Masgdi Allam. Anche perchè poi schiacciarsi sul Vaticano ha creato un effetto “double face”, visto che alla fine proprio dalla Santa sede arrivano continuamente sponde alla visione arabocentrica del Medio Oriente e ostilità verso lo stato di Israele. E in effetti la futura politica del settore italiana sarà di fatto subappaltata ad Andrea Riccardi, cioè alla Comunità di Sant’Egidio, vero artefice della mutata posizione dell’Italia all’Onu sul riconoscimento dell’Anp. No, la Sbai parte dalla laicità delle istituzioni dello stato, connotando ciò come vero “occidentalismo”. Non a caso l’ultimo capitolo del libro (presentato ieri alla Camera dei deputati) è intitolato “Il dolore inespresso e gli intellettuali”. In esso la Sbai racconta come per anni gli scrittori e i poeti di Algeri abbiano dovuto tenere dentro di sé quello che avevano visto. Ostacolati dalla lingua francese nel raccontare le cose, visto che ancora viene considerata quella dei colonialisti, ma consapevoli dell’impossibilità di farsi capire da tutti esprimendosi nell’arabo, assuefatti alla morte e ossessionati dal senso di colpa di essere sopravvissuti (come quelli che sopravvissero ai campi di sterminio dopo la seconda guerra mondiale), hanno cercato sponde in Occidente al di là del Mediterraneo. Spesso scontrandosi con visioni politically correct persino del terrorismo islamico. Scrive Souad che «il francese è una lingua straniera che viene utilizzata da non-francesi, e questo è naturalmente limitante, non potrà mai essere data una risposta adeguata alle parole che un arabo pensa, un sentire esistenziale diverso da quello dei francesi. Il francese va bene per i francesi, ma non per gli algerini.

Devono scrivere in arabo in quanto questa lingua esalta la loro quotidianità e mette in risalto i drammatici momenti di quella sanguinosa guerra civile». Invece nessuno li incoraggia, alcuni di loro «passano il tempo a fumare», aspettano un segno che non arriva. E qualcuno come la poetessa Safia (che in arabo significa “pura”, è anche la marca di un’acqua minerale, ndr) si getta dal “ponte della morte” perchè non regge la pressione. La maggior parte degli intellettuali però viene ammazzata senza pietà. E il 1993 fu l’anno nero. Scrive la Sbai: «Il 1993 è stato un anno drammatico per la cultura algerina, un periodo in cui nessun militante islamico aveva la minima pietà. Gli intellettuali dovevano morire perché una “tregua” non poteva essere concessa a chi seguiva il libero pensiero. Venivano controllati anche dall’estero e molti avevano paura di parlare anche per le possibili ripercussioni sui familiari rimasti in patria». E il 1993 «è stato un anno triste anche perché Tahar Djaout, noto poeta, scrittore e giornalista algerino, è stato ucciso in una di quelle azioni letali». Djaout, ucciso con una raffica di mitra alla testa, era quello della citazione con cui comincia il libro: «Se tu parli muori, se non parli muori, allora tu parli e muori». E lui così ha fatto.


di Dimitri Buffa