La strana guerra della nostra gioventù

giovedì 8 novembre 2012


Il nostro paese sta vivendo un periodo di stranezze, per colpa del degrado della politica e della crisi economica. Ci stiamo avviando alla rottamazione della seconda repubblica, che implode a causa di un’immoralità che non si era vista neppure nei momenti peggiori di quella nata dalla resistenza. 

Vero è che tra la seconda repubblica e quello che ne seguirà non c’è uno stacco netto, come in occasione di una rivolta o come accadde con la rivoluzione giudiziaria di vent’anni fa. 

Al contrario, mentre la terza repubblica fa i primi vagiti nella nursery, la seconda è ancora viva e giace in un hospice di fine vita. 

Nella primavera del 1940 i francesi in armi si convinsero che la guerra in corso con la Germania nazista fosse cosa di poco conto, la definirono drôle de guerre o guerra strana, perché da opposte fortificazioni i due contendenti si guardarono in cagnesco per mesi, senza sparare neppure un colpo di fucile. Quando c’è qualcosa di strano in ballo, bisognerebbe tenere le antenne ben alte, perché la situazione potrebbe mutare e i cugini d’oltralpe rammentano qualcosa in proposito. La Francia capitolò nel giugno del 1940, nonostante la drôle de guerre. 

L’estate del 2011 ha evidenziato un acuirsi di fenomeni sociali, motivati dalla prima grave crisi economica del terzo millennio e interpretati in modo difforme dalla gioventù del mondo, che ancora oggi viaggia a differenti velocità ideali. 

La Gran Bretagna visse un agosto di rivolte e violenze urbane, domate dal governo britannico con pugno fermo e per questo declassate, per chi ci ha creduto, a semplice fenomeno teppistico.

In Norvegia un invasato fece strage di giovani, prendendoli a fucilate con serena pazzia, in nome della tutela razziale di una società europea, che nel mondo globale di oggi non esiste più. 

In tutto il nord Africa arabo numerose rivolte, sostenute da un passaparola informatico, alcune pure cruente.In Spagna nacque il movimento degli indignati, polemici con tutta la politica iberica e fatto da migliaia di giovani senza lavoro o con un lavoro precario, che poi è la stessa cosa.  

I gruppi giovanili che ruotano attorno alla Chiesa accorsero in Spagna da tutto il mondo per la giornata della gioventù. Sono tanti bravi ragazzi, che vivono ancora in casa, studiano e frequentano gli oratori. Essi riempiono di speranze il paese, perché rappresentano una parte sana e educata della società. Vivono in un mondo di sogni e quando si sogna, se non è un incubo, tutto è perfetto. La crisi economica è roba da adulti, non comprano i titoli di stato, le tasse non le pagano, perché ci pensano i genitori, il lavoro arriverà al momento giusto, grazie alla provvidenza. 

Questi bravi ragazzi sono un serbatoio di potenziali tensioni, perché non hanno ancora toccato il mondo dei call center, non sono mai stati in coda davanti agli uffici del lavoro interinale, non sono tra quanti vorrebbero una casa, un mutuo, una famiglia e vivono nella rassegnazione più assoluta, perché non possono permetterselo non avendo un lavoro stabile.  

Mio figlio maggiore era a Madrid con altri due milioni di ragazzi, si è laureato nello stesso anno, per continuare a fare il bamboccione, direbbe un personaggio da poco scomparso, per un secondo periodo universitario. Un giorno sarà precario o disoccupato, quando entrerà davvero nella vita reale e forse si trasformerà da ragazzo idealista in adulto indignato, lui come gli altri per ora parcheggiati nell’utopia dello spirito religioso.

Negli ultimi anni non c’è mai stata una vera risposta politica alle attese delle giovani generazioni. 

La politica ha usato solo l’arma delle tasse per risollevare le sorti del paese, tanto invise ai calciatori, senza preoccuparsi della nostra gioventù. Quando poi il governo dei politici dovette lasciare il posto ai tecnici, che l’anno passato abbiamo tutti osannato come ‘illuminati’, la zuppa non è cambiata e le aspirazioni dei troppi precari sono cadute nel vento, direbbe Bob Dylan.

“Mai visto un governo di persone tanto acculturate”, si coglieva fino a pochi mesi fa nei bar o sui mezzi pubblici. Rettori, professori, docenti, dirigenti, insomma un agglomerato di cervelli, solo esperti nel loro campo e nessun politicante di professione, com’è sempre accaduto, che in genere era collocato in ministeri di cui neppure aveva mai sentito parlare.  

Qualche commentatore più scaltro degli altri ha rammentato quanto accadde trent’anni fa, quando chi stava al governo cedette la guida del paese al primo e unico Presidente del consiglio socialista. Altri tempi. Tra le motivazioni ce ne fu una di politica internazionale: l’Italia avrebbe dovuto ospitare in Sicilia, a Comiso, nuove testate nucleari, ricordo che si era nel periodo della guerra fredda. Nessuno avrebbe accettato con serenità quella decisione politica e allora fu deciso di dare la palla ai socialisti, che da forza di governo avrebbero dovuto perseguire la real politik. 

Il governo tecnico sta prendendo decisioni dure, quanto i missili a Comiso, senza subire il ricatto del giudizio elettorale. Ecco perché qualcuno ha delegato i professori, che non fanno politica e non s’identificano con un partito. Stanno agendo secondo scienza e coscienza, si spera, senza fini o limitazioni elettorali. Strana furbizia della solita politica italica, verrebbe da dire.

Il loro agire di questi mesi si è concentrato solo sul debito pubblico. Altri rivendicano la necessità di una politica per lo sviluppo, che non si vede, ma nessuno pensa al futuro dei nostri figli e ad anticipare i fermenti della gioventù. Siamo tutti d’accordo sul perché si debba mettere mano al debito, forse bisognerebbe dibattere sul come, altrimenti il governo dei tecnici non raccoglierà le speranze della gente.La politica ai massimi sistemi sembra ignorare i sani principi dell’economia domestica, che impone tagli alle spese superflue, quando mancano soldi per arrivare alla quarta settimana. 

Io credo che i piccoli comuni, le circoscrizioni di quartiere, le comunità montane, le stesse province, tutto quanto generi amministrazioni costose, improduttive e a rischio d’insane tentazioni, dovrebbe essere abrogato, in un paese che non usa il tam tam per comunicare. Uno stato moderno del terzo millennio non ha bisogno di un frazionamento amministrativo simile all’epoca dei gladiatori, perché oggi gran parte dei bisogni si assolvono on-line.

La gioventù che non lavora è sempre più indignata. Essa non è avversa solo alla politica, è arrabbiata anche e soprattutto con le generazioni precedenti, con i padri, con tutti noi, perché non siamo stati in grado di creare il giusto sviluppo occupazionale, ma solo debito pubblico. 

Da padre di un prossimo indignato, credo che questo nostro paese dovrebbe mettere al primo posto in agenda l’abolizione per legge del precariato, dei lavori a tempo determinato, quelli interinali, le vane speranze e i sogni utopici. 

L’Italia dovrebbe riportare concretezza e fiducia tra i giovani, che sono quelli che in futuro, per garantire anche la mia pensione, verseranno contributi con giuste trattenute dal loro lavoro. Noi adulti di mezza età dobbiamo offrire un futuro alle generazioni che ci seguono, come in fondo hanno fatto per noi i nostri padri.Ecco perché io oggi sono disposto a barattare la mia pensione di domani, allungando l’età necessaria per acquisirla, non per foraggiare le inutili strutture politiche che reggono lo stato fino alla più piccola circoscrizione o peggio ancora per versare interessi su interessi del debito pubblico o lasciare che un Batman di provincia rubi soldi allo stato. Non vorrei neppure fare da cassa di risparmio per chi non ha il senso di appartenenza a una comunità ed evade con sfacciataggine le tasse oppure ancora per acquistare inutili giocattoli da guerra.  Io baratto la mia futura pensione con posti di lavoro a tempo indeterminato e poco importa se siano sotto casa o nel comune attiguo. Offro la mia pensione in cambio della fine del precariato giovanile, che è la vera e unica piaga sociale di questo periodo storico.

Lo Stato dovrebbe garantire per legge, oltre al diritto allo studio, che alla società costa e deve essere in ogni caso considerato un investimento, anche il conseguente diritto al lavoro, la lotta alla disoccupazione e l’abrogazione per legge di ogni forma di precariato occupazionale. 

Questa non è utopia, è il modo semplice per comprendere e risolvere i reali bisogni della società, direbbe mia nonna. Anzi, la forza di un paese si dimostra quando lo stato garantisce a tutti i cittadini uguali diritti. Il lavoro è tra questi, se non erro è scritto pure nella nostra Costituzione.


di Alessandro Bertolini