Arriva il Roma Fest di Nichols e Muller

sabato 13 ottobre 2012


Sarà il regista Jeff Nichols il presidente di giuria dei film in concorso alla prima edizione del festival di Roma targata Marco Muller. Guest star, Quentin Tarantino, anche se non si sa bene cosa verrà a fare.

Basterà come garanzia di non vedere premiato il solito film nord o sud coreano, o cinese o mongolo come è capitato a Venezia negli ultimi anni proprio durante la gestione Muller? Forse sì, considerato che Nichols è un regista cui piacciono i film con ritmi ossessivi propri della migliore cinematografia yankee alla quale senz’altro appartiene. Nichols, che ambienta una delle sue tre pellicole sin qui girate, Take shelter, nell’Ohio, immaginando una storia apocalittica e integrata come quella di Curtis LaForche, difficilmente dovrebbe premiare l’ennesimo film asiatico in cui il ritmo è una variabile indipendente.

Take shelter è infatti la storia di un uomo tranquillo che vive in una piccola cittadina dell’Ohio, assieme alla moglie Samantha e alla figlia Hannah, sorda dalla nascita. La famiglia LaForche conduce una vita modesta, Curtis è operaio mentre Samantha è casalinga e sarta part-time, ma il denaro per le spese quotidiane e l’assistenza sanitaria di Hannah non basta mai. Ciò nonostante sono una famiglia felice. Un giorno Curtis inizia ad avere delle terribili visioni su violente tempeste, che decide di tenere per sé. Ma con l’aumentare delle visioni, l’uomo inizia a comportarsi in modo ossessivo, arrivando a costruire un rifugio nel cortile per proteggere la sua famiglia dalle minacciose tempeste. Il comportamento apparentemente inspiegabile di Curtis genera tensioni nel suo matrimonio e conflitti con gli altri abitanti della comunità. Insomma una specie di “Cane di paglia” della meteorologia e della metereopatia, dato che alla fine la tempesta arriva per davvero.

Un regista così, teoricamente, dovrebbe lottare “usque a effusionem sanguinis” prima di premiare con il Marc Aurelio d’oro una di quelle inguardabili e pretenziose pellicole asiatiche cui da Venezia la gestione Muller, noto sinologo, ci aveva assuefatti. Ma non è detta l’ultima parola, ovviamente. I numeri della settima edizione del Festival di Roma, per la cronaca, sono i seguenti: dal 9 al 17 novembre si cimenteranno in concorso tredici pellicole delle 59 che si vedranno nelle varie sezioni o fuori concorso. Cinque saranno le prime mondiali e 34 i cortometraggi, che in Prospettive Italia saranno sei, oltre ai sette lungometraggi e ai sei documentari.

La mano di Muller ci sarà in ogni caso per la gioia degli spettatori del film di apertura fuori concorso, rigorosamente di regista tagiko. Si tratta di Vožidanii morja (Aspettando il mare) di Bakhtiar Khudojnazarov. Il nuovo lavoro del regista, sceneggiatore e produttore russo di origine tagika, autore dei pluripremiati lungometraggi Pari e Patta e Luna Papa, sarà presentato a Roma in prima mondiale. Aspettando il mare dovrebbe nelle intenzioni essere uno spettacolare kolossal che mescola generi e tradizioni culturali. Il film ha visto impegnato Khudojnazarov per sei lunghi anni di preparazione e lavorazione. Si tratta di una coproduzione russa, tedesca, belga, francese, kazaka e ucraina che annovera fra i protagonisti il divo russo Egor Beroev, il regista e attore tedesco Detlev Buck e la top model Anastasia Mikulchina.

Fuori concorso anche il film di chiusura della settima edizione del Festival, Una pistola en cada mano, del regista e sceneggiatore catalano Cesc Gay. Nel cast Ricardo Darín, Javier Cámara, Luis Tosar, Eduardo Noriega, Candela Peña e Jordi Mollà.

Nelle note scritte dallo stesso Muller per illustrare la propria Weltanschauungall’interno del catalogo del Festival, c’è questo passaggio, assai inquietante, che riproponiamo testualmente: «...immergersi nella singolarità dei film senza proteggersi le spalle con le ideologie; essere sempre disponibili a contraddirsi e contaminarsi, senza perdere la memoria di immagini e pagine». Che significa? Un ulteriore indizio ce lo da ancora Muller quando parla di  «...sbarazzarsi del mito di una lingua “universale” del cinema, così da essere partecipi, invece, del dibattito tra i diversi modi di “fare cinema”, del dialogo tra le diverse culture di produzione di immagini». Insomma siamo sempre lì: un film non è bello o una boiata pazzesca perché oggettivamente può essere catalogato così, ma esiste un “relativismo cinematografico”, per cui in Mongolia è godibilissimo un piano sequenza di venti minuti in cui un uomo rincorre un bovino senza che si dica una singola battuta.

In compenso, assicura Muller, «abbiamo, una squadra agguerritissima ed io, avuto poco più di quattro mesi per sperimentare i modi più giusti volti a dinamizzare la nostra relazione con chi il cinema lo fa e con chi lo fa circolare. E per considerare i nostri gruppi di spettatori potenziali non come una risposta scontata, ma come una domanda sempre rinnovata. Ne è scaturito un programma che ci sembra possedere un’identità riconoscibile: la strada che abbiamo percorso è stata quella di un sincretismo ragionato, aperto a ogni possibilità di sollecitare uno sguardo attento, vigile e appassionato». Tradotto in italiano volgare, si potrebbe citare il Sommo Poeta: «Lasciate ogni speranza, o voi ch’intrate».

Per fortuna che ormai nei Festival vincere è sempre più un accidente del caso. Vedi il sudcoreano Pieta a Venezia 2012, da ultimo. L’importante è partecipare, come direbbe De Coubertin. E a tale proposito siamo curiosissimi di vedere che ha combinato, ad esempio, il regista Roman Coppola con A glimpse inside the mind of Charles Swann III, con Charlie Sheen come protagonista maschile e Patricia Arquette come analoga femminile. Chissà se, oltre al nome nel titolo, nella storia non ci sia anche il tentativo di mettere almeno un’idea de La recherche di Marcel Proust sul grande schermo. Magari all’interno di un bel film di violenza. Cosa sinora mai riuscita a nessuno.


di Dimitri Buffa