Chi difende la libertà di espressione?

sabato 29 settembre 2012


Il diritto di libertà di espressione è sotto attacco. Non sono solo le masse di fondamentalisti islamici a ricordarcelo, ammazzando un ambasciatore e devastando cinema e chiese, perché “offesi da un video e da alcune vignette”. Né solo i discorsi all’Onu dei presidenti di Pakistan, Egitto e Afghanistan, che chiedono di censurare ogni manifestazione di “islamofobia”. L’attacco alla libertà di espressione parte da commentatori, politici e professori occidentali. Ce lo ricorda il discorso di Daniel Cohn-Bendit, al Parlamento Europeo, che insulta i vignettisti e i redattori della rivista satirica Charlie Hebdo, dando loro degli «idioti». O gli innumerevoli editoriali, in cui si preme per una libertà di espressione “responsabile”, dunque meno libera e più controllata. E in un caso tutto italiano, quello dell’ex direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, condannato a 14 mesi di carcere per un’opinione scritta da un collaboratore. Anche in questo caso, l’opinione si divide, su linee politiche, fra pro e contro Sallusti, ma quasi nessuno degli intellettuali si straccia le vesti in difesa del principio libertà di espressione.

Già all’epoca dell’ondata di violenze contro le “vignette sataniche” danesi, la professoressa Onora O’Neill, dell’Università di Cambridge, negava il “diritto di offendere”, contestando i difensori della libertà di espressione. Non è una tesi nuova. Nei decenni precedenti alle ondate di violenza anti-occidentali, professori, soprattutto americani, progressisti, appartenenti a minoranze etniche o al movimento femminista, hanno eroso teoricamente il diritto di libertà di espressione. Paradossalmente, se fino al XX Secolo erano i progressisti a sostenere la più completa libertà, contro le censure “borghesi” o religiose, all’alba del XXI la sinistra intellettuale chiede un ritorno della censura.

Il filosofo statunitense Stephen Hicks, individualista, in una sua conferenza del 2002 (profetica, dunque) tenuta presso la Atlas Society, aveva sviscerato l’argomento del nuovo oscurantismo della sinistra. Concludendo con una rinnovata difesa della libertà di espressione. Che, secondo il filosofo, si fonda su quattro concetti illuministici: a) la ragione è essenziale per conoscere la realtà b) la ragione è una funzione dell’individuo c) ciò che serve ad ogni individuo per perseguire la conoscenza della realtà è, prima di tutto, la libertà: di pensare, criticare e dibattere d) la libertà individuale di esprimersi e perseguire la conoscenza è un valore fondamentale per tutti i membri della società. Hicks spiega che l’assalto progressista alla libertà di espressione è motivato, soprattutto, dalla frustrazione. «La sinistra – sostiene Hicks – ha sofferto una lunga serie di sconfitte e delusioni. In Occidente, ha fallito nel suo tentativo di generare sistemi politici socialisti ed oggi anche molti partiti socialisti sono diventati più moderati. Esperimenti collettivisti più radicali, in Stati differenti quali l’Unione Sovietica, Vietnam, Cuba, sono tutti falliti. Anche il mondo accademico ha dovuto accettare il liberalismo e il mercato. Quando un movimento intellettuale soffre simili sconfitte strategiche, è logico attendersi che reagisca con tattiche più disperate».

L’emergere della volontà di censurare deriva dal palese fallimento di due sfide recenti della sinistra occidentale: la discriminazione positiva e l’eguaglianza delle opportunità.

La discriminazione positiva (impopolare, ma tutt’altro che morta) si basa sulla presunzione che i dominatori storici debbano compensare i loro ex dominati. E questo è un discorso che vale sia per il genere (i maschi esercitavano il loro dominio sulle femmine) che per le etnie (bianchi sui neri e su tutti gli altri). La discriminazione positiva parte da un assunto collettivista. Non è il singolo ex schiavista che deve compensare il suo ex schiavo, o il colono il suo colonizzato, ma è l’intera collettività di ex dominatori che deve pagare. «I sostenitori della discriminazione positiva ritengono che i bianchi e i neri debbano essere trattati come membri dei gruppi razziali a cui appartengono». La sinistra parte anche da un assunto morale altruista: «I sostenitori della discriminazione positiva ritengono che, in parte quale risultato della schiavitù e del colonialismo, i bianchi siano ancora il gruppo dominante, mentre i “neri” sono ancora subordinati. Visto che è il forte che deve sacrificare i suoi interessi per il debole, è giusto redistribuire posti di lavoro, borse di studio e quant’altro dai gruppi razziali forti a quelli deboli».

L’altra sfida già persa in partenza dalla sinistra è, appunto, l’eguaglianza delle opportunità. Per spiegare l’impossibilità di questo traguardo, Stephen Hicks immagina una partita a basket fra lui e Michael Jordan. Non ci sarebbe alcuna possibilità di vittoria per il filosofo. A meno di non creare ostacoli fisici per l’ex campione e regalare decine di punti al professore. L’eguaglianza di opportunità, applicata in tutti i campi, se messa a nudo, funziona esattamente così: «Ci sono tre possibili approcci: possiamo impedire al più forte di applicare appieno il suo talento, regalare al debole un vantaggio che non si è guadagnato, o fare entrambe le cose». 

Perché la sinistra contemporanea, di fronte all’evidente fallimento della discriminazione positiva e dell’eguaglianza di opportunità, finisce per invocare nuove forme di censura? Perché, spiega Hicks, i filosofi progressisti, ritengono che la mente umana non sia affatto dotata di libero arbitrio, ma sia plasmata dalla società. «L’uomo è un prodotto della società - pensano i post-modernisti – e noi siamo, anche da adulti, inconsapevoli delle costruzione sociale che è alla base del nostro linguaggio. Noi possiamo anche pensare di parlare liberamente e di prendere le nostre decisioni, ma è la mano, non vista, della costruzione sociale che ci rende quel che siamo. Quel che pensiamo e quel che facciamo ed anche il come pensiamo, è dominato dai nostri pre-concetti». E quindi: «Il risultato di questa teoria è la fine della distinzione fra la parola e l’azione, finora sempre enfatizzata dal liberalismo. Per i post-modernisti, lo stesso linguaggio è di per sé un potente strumento dell’azione, perché costruisce quel che siamo e sottende tutte le azioni che intraprendiamo». In sintesi: «Quel che i post-modernisti dicono è: il linguaggio è uno strumento nel conflitto fra gruppi ineguali. Questo concetto è diametralmente opposto al liberalismo, secondo cui il linguaggio è un mezzo di conoscenza e di comunicazione fra individui liberi».

Nel nome della discriminazione positiva e dell’eguaglianza di opportunità i progressisti censurano il “forte” per tutelare il “debole”. Il mondo islamico, oggi, è identificato nel “debole”, in confronto alla civiltà occidentale “forte”. Ed ecco spiegato il perché nessun progressista si straccia le vesti quando capi di Stato islamici invocano la censura, o semplici vignettisti europei (o un regista americano ancora sconosciuto) vengono braccati e condannati a morte. Né i progressisti intendono difendere un ex direttore di un giornale “forte” da una condanna al carcere. Perché, dal loro punto di vista, il linguaggio è “uno strumento nel conflitto fra gruppi ineguali”. Un’arma, non un diritto.


di Stefano Magni