Il federalismo di Cesare Balbo

domenica 5 agosto 2012


Il papà fu sindaco di Torino e poi ambasciatore a Parigi e a Madrid; la mamma era una Taparelli d’Azeglio e quindi Cesare era cugino in primo grado dei fratelli Roberto, Luigi e Massimo Taparelli d’Azeglio.

Seguendo gli spostamenti del padre ebbe l’opportunità di conoscere direttamente i sostenitori di quelle idee illuministiche che si andavano sempre più diffondendo. Durante il periodo napoleonico ricoprì diversi incarichi pubblici e, rientrato a Torino, fu fra gli animatori dell’«Accademia dei Concordi» che, nata come espressione del patriottismo piemontese contro i francesi, si evolse come centro d’irradiazione delle idee liberali.

Balbo sosteneva che i Savoia avrebbero dovuto concedere lo Statuto e mettersi a capo di una confederazione di Stati italiani. 

Fu coinvolto, come il cugino Roberto, nei moti torinesi del 1821 e fu confinato per dieci anni a Camerano (in provincia di Asti), dove si dedicò agli studi storici. Qui visse un periodo di isolamento quasi totale che gli diede l’opportunità di approfondire un suo duplice interesse: il problema dell’indipendenza degli Stati italiani dallo straniero, con la conseguente liberazione della dominazione austriaca, per opera di Casa Savoia, e la tematica della conciliazione dei principii cristiani con le idee liberali.

Nel 1844 pubblicò a Parigi una delle sue opere più importanti «Le speranze d’Italia». Vi criticava il programma di Gioberti (del primo Gioberti) e vi illustrava il proprio punto di vista.

Se è vero che Gioberti costituiva un importante passo in avanti nel raggiungimento dell’unità d’Italia, tuttavia - sosteneva il Balbo - non precisava a sufficienza quale sarebbe stato il ruolo dell’Austria nella confederazione italiana. Infatti, se l’Austria vi fosse entrata, quasi certamente ne avrebbe preteso il primo posto, e quindi l’egemonia, per cui il predominio straniero sarebbe risultato rafforzato. Se invece non vi avesse partecipato, allora, assieme all’Austria, sarebbe rimasta fuori dalla Confederazione l’importante regione del Lombardo-Veneto.

Secondo Balbo, però, per allontanare l’Austria del Lombardo-Veneto non era necessaria la guerra.  L’Austria era destinata, con il crollo dell’impero turco che sembrava imminente, ad espandersi verso il Danubio e i Balcani. Era il cosiddetto “compenso balcanico” che avrebbe dovuto accontentare largamente la monarchia asburgica.

D’altronde, per convincere l’Austria a lasciare l’Italia per i Balcani, la presenza di un forte esercito, come quello piemontese, avrebbe avuto un effetto deterrente. Ecco perché, concludeva Balbo contro il primo Gioberti, per raggiungere l’unità d’Italia, non bisognava guardare il Pontefice, ma il Piemonte.

Proponeva dunque una federazione italiana, dove ogni principe avrebbe governato la propria regione, dove il Papato doveva esercitare una funzione moderatrice, mentre il Piemonte doveva assolvere a un compito militare.

Balbo, però, poneva come prima condizione la concessione dello Statuto da parte della dinastia sabauda, perché le varie classi sociali dovevano essere rette da un regime costituzionale sul tipo di quello inglese. Lo Statuto concesso dai Savoia, poi, avrebbe dovuto fare da traino anche presso gli altri governanti italiani.

Il modello proposto da Cesare Balbo, tuttavia, contrariava sia i consiglieri del re sabaudo sia i sostenitori della cospirazione contro il sovrano. Balbo, quindi, era mal visto da entrambe le parti politiche.

Richiamandosi alle idee dei cattolici liberali, Balbo riproponeva il pensiero neo-guelfo aggiungendo una sua soluzione alla situazione contraddittoria causata dalla presenza austriaca. Egli sosteneva, inoltre, la necessità delle riforme nello Stato Pontificio, differenziandosi nettamente così anche dai cattolici conservatori del suo tempo.

Pensando che fosse difficile un’azione concorde dei principi italiani e vedendo come non praticabile un’insurrezione popolare, egli credeva opportuno attendere un’occasione favorevole di carattere internazionale: l’espansione dell’impero asburgico verso l’area dei Balcani, in modo che l’Austria fosse indotta a lasciare la penisola. Ecco il significato della sua opera «Le speranze d’Italia», che lo pone come uno dei maggiori interpreti del cattolicesimo liberale italiano, capace di confrontarsi con le sfide della modernità.

Con il passar degli anni, Carlo Alberto riconobbe la validità del pensiero di Balbo, per cui non solo gli concesse di ritornare a Torino ma, addirittura, gli affidò anche, nel marzo del 1848, l’incarico di guidare il primo governo costituzionale del Regno di Sardegna.

Con lui come Presidente del Consiglio, si ebbero, un mese dopo, le prime elezioni della Camera dei Deputati (il Senato era di nomina regia). Le elezioni si svolsero a scrutinio uninominale.

Ma dopo tre mesi, Balbo, coerentemente con le sue idee, si dimise perché il parlamento non aveva approvato la sua proposta di unire al Piemonte la Lombardia, e le province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo. 

Tornato semplice deputato, durante il governo presieduto dal cugino Massimo d’Azeglio, gli fu affidato (1849) l’incarico, che svolse con successo, delle trattative per il ritorno di Pio IX da Gaeta a Roma.

Nel 1852 Vittorio Emanuele II gli affidò l’incarico di formare un nuovo governo, ma vi rinunciò perché il cugino Massimo d’Azeglio e, soprattutto, Cavour vi si opposero, essendo stato Balbo contrario all’approvazione della legge sull’abolizione del foro ecclesiastico e sull’incameramento dei beni della Chiesa.

Ritornato ai suoi studi, si dedicò a scrivere parecchi saggi, sia storici che politici, molti dei quali saranno pubblicati postumi, ove si continuava ad affermare la prospettiva della riunificazione italiana ad egemonia piemontese, contrapponendosi però ad ogni rottura rivoluzionaria, e ove si continuava a sostenere la necessità di coniugare i valori cristiani con le idee liberali, vedendo in ciò l’affermazione della Provvidenza.

È interessante ricordare la sua concezione del pluralismo, fondata sul concetto di legalità, per cui non c’era spazio né per il giacobinismo né per il reazionismo. Rileviamo, infine, che postulando l’eliminazione dei due estremi, non propose un’ipotesi centrista, che egli giudicava fattore di ambiguità e di opportunismo, bensì una dialettica politica tra moderati conservatori e moderati progressisti, rispondente al modello inglese. 

Puntate precedenti dedicate ai cattolici liberali: 10 e 24 giugno; 8, 15, 22, 29 luglio 2012


di Niccolò Dimivi