domenica 29 luglio 2012
Era il più piccolo dei figli di Cesare d’Azeglio e nacque a Torino nel 1798. La sua personalità è poliedrica: fu un buon pittore, un affermato letterato, un politico liberale che, pur cattolico, denunciò nei suoi scritti il mal governo pontificio e propose come raggiungere l’unità d’Italia. E fu anche un uomo d’azione, essendo stato per ben due volte, Primo Ministro del Regno del Piemonte. L’occupazione del Piemonte da parte di Napoleone, spinse la famiglia d’Azeglio ad andare a Firenze, e fu lì, presso le Suore Pie, che Massimo ricevette la prima educazione, che egli ricorderà come “severa”. Caduto Napoleone e i d’Azeglio ritornati a Torino, frequentò l’Università nella capitale piemontese.
Entrò in cavalleria come allievo ufficiale, ma, per profondi dissensi con gli aristocratici che dirigevano il “Reale Piemonte”, dopo pochi mesi abbandonò la carriera militare. Passò quindi a Roma presso l’ambasciata sarda, con la mansione di segretario. Ma neanche nello svolgimento di questa attività si trovò bene. Sentiva, infatti, una forte vocazione artistica e poetica. Appresi i primi rudimenti di pittura dal calabrese Ciccio De Capo, frequentò lo studio del pittore fiammingo Martin Verstappen, il grande paesaggista della campagna romana. Nutrì, però, anche vivi interessi per i soggetti storici. Parecchi dei suoi quadri sono oggi conservati nella Galleria d’Arte Moderna di Torino. Alternò vari soggiorni nelle principali città italiane (Firenze, Torino, Milano, Roma, Napoli) e per la sua vita gaudente, dalle dame di Corte, gli fu attribuito il soprannome di “spocaciun”.
Subito dopo la morte del padre, nel 1831, si trasferì più stabilmente a Milano. Il periodo milanese fu fecondo di opere pittoriche ed espose con regolarità all’Accademia di Brera. A Milano acquistò fama anche come autore di romanzi storici e patriottici. Frequentando i cenacoli del romanticismo milanese, conobbe Alessandro Manzoni e ne sposò la figlia, Giulia. Ma la loro unione non fu del tutto felice. E’ di questo periodo il romanzo Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta (1833), dal ritmo narrativo veloce, dal tratteggio vivace di ambienti e figure, con abili alternanze di elementi patetici e grotteschi, tragici e moderatamente comici. Questo romanzo ebbe, già ai suoi tempi, un grande successo, tanto che il libro circolava persino nei Seminari. Avrà anche quattro adattamenti cinematografici. Ettore Fieramosca fu un cavaliere italiano, il cui nome è legato alla famosa disfida di Barletta del 1503.
Spagnoli e francesi, in quei tempi, si contendevano il regno di Federico II, nel sud dell’Italia. Il Fieramosca, in un’imboscata condotta per gli spagnoli, aveva fatto prigioniero un cavaliere francese, detto La Motte, il quale accusò i cavalieri italiani di essere codardi e vigliacchi e li sfidò a duello in un torneo cavalleresco. Così tredici cavalieri italiani, guidati da Fieramosca, si scontrarono con altrettanti cavalieri francesi, comandati da La Motte. La sfida si concluse con una strepitosa vittoria degli italiani. Il d’Azeglio idealizzò la figura di Fieramosca e la eresse a simbolo del valore e dell’identità nazionale. Verso la fine del soggiorno milanese pubblicò Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841), altra opera animata da spirito patriottico e caratterizzata dalla velocità del ritmo narrativo. Il romanzo è ambientato durante l’assedio di Firenze del 1530 ed è incentrato sui Piagnoni, seguaci di Savonarola, e sui Palleschi, legati alla famiglia Medici. Piagnoni e Palleschi - scrive il d’Azeglio - erano inconciliabili per odi vecchi e per fresche ingiurie, e così facendo tenevano divisa la città: in questo ricordo storico, egli rispecchiava la tragedia della sua Italia contemporanea.
Quando il vecchio Niccolò vide partire per il campo i suoi figli, esclamò: «O Firenze! O patria mia! Null’altro mi rimane, fuorché coteste vite! Io te le dono!». Questo è il messaggio che ci dà Massimo d’Azeglio, rivivificando, durante il periodo risorgimentale, il suo Medioevo. Dal 1843, soprattutto in seguito alle frequentazioni di Cesare Balbo, suo cugino primo, iniziò ad interessarsi molto da vicino della vita politica italiana. Pubblicò vari opuscoli polemici ed antiaustriaci. Il più famoso è Gli ultimi casi di Romagna (1846), ispirato ai moti di Rimini del 1845, in cui denunciò il mal governo dello Stato pontificio. Si voleva da più parti indipendenza, libertà, unità. Indipendenza dalle potenze straniere, conseguimento delle libertà liberali, unità degli Stati della penisola.
Il d’Azeglio, con il suo scritto, contribuì ad accelerare la presa di coscienza e a spingere all’azione. E’ un atto di accusa, indirizzato all’Europa intera, contro un governo debole, che nasconde la sua debolezza con la repressione, vendicando così i tumulti di Rimini. Vi espose anche le sue idee per la formazione del nuovo stato italiano. E subito dopo (1847) le riprese nella Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana. Era una posizione di liberale moderato, la sua, nel dibattito sul riscatto dell’Italia dalla sua condizione di divisione e di sudditanza allo straniero. Per lui era fondamentale l’indipendenza dallo straniero, ma partiva dall’ipotesi di rinuncia alla rivoluzione: sarebbero dovuti essere i principi italiani ad unirsi e ad adottare un programma di riforme, in vista di un progetto economico e civile. Confidava in Carlo Alberto per l’ottenimento dello Statuto e per il raggiungimento dell’unità d’Italia.
Era contrario alle società segrete e ai tentativi insurrezionali; bisognava cospirare “alla luce del sole”. Testimone a Roma degli entusiasmi suscitati dall’avvento di Pio IX (1848), partecipò alle speranze di tutti. Fu un sincero patriota. Contrario all’unificazione d’Italia a sola guida piemontese, fu un fervente federalista. Auspicava la creazione di una confederazione di Stati sul modello tedesco. Anche perché era cosciente delle differenze tra i vari regni d’Italia. E’ sua la famosa frase: «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». Per il suo federalismo, però, fu attaccato sia dai mazziniani, che attribuivano all’assetto federalista il possibile perdurare dei particolarismi, sia da Cavour che, sostenendo l’egemonia piemontese, lo definirà “un empio rivale”. Anche i cattolici intransigenti lo attaccarono e il periodico torinese L’Armonia, lo osteggiò risolutamente. Dopo la sconfitta di Novara, uno dei momenti più drammatici della storia d’Italia, ebbe l’incarico da Vittorio Emanuele II di formare il governo.
Il re, infatti, si rendeva conto che non era più possibile una politica conservatrice. E non volendo avvicinare i cosiddetti democratici, era necessario coinvolgere almeno i liberali moderati. Questi ultimi imposero il mantenimento dello Statuto e un programma nazionale. Dopo un tentativo fallito del re su Vincenzo Gioberti, la scelta cadde su d’Azeglio che pose, però, delle condizioni precise: «Prima che piemontese - disse - si sentiva italiano e come tale intendeva comportarsi». Propose, quindi, la pace con l’Austria, l’intesa con la Francia e l’Inghilterra, le riforme interne. Il primo ministero d’Azeglio rimase in carica dal 7 maggio 1849 al 21 maggio 1852. Ma il secondo ministero d’Azeglio durò ancora meno: dal 21 maggio 1852 al 4 novembre 1852.
Il Cavour non vi partecipava più, ma scrisse ad un amico: «Per il momento bisogna subirlo, ma, superata la crisi, d’Azeglio dovrà ritirarsi e allora s’imporrà la scelta». Il momento arrivò più presto del previsto. Avendo il re dichiarato che non avrebbe mai firmato una legge sul matrimonio civile, già approvata dalla Camera, d’Azeglio, per difendere l’autonomia e l’autorità del Parlamento, si dimise definitivamente. Resosi conto di essere molto lontano dalle correnti dominanti, preferì allontanarsi dalla vita politica attiva, in silenzio, senza recriminazioni. Trascorse gli ultimi anni della sua vita sul Lago Maggiore dove si dedicò alla stesura delle sue memorie, I miei ricordi, apparse postume. Come scrisse nell’Introduzione, «intendo non tanto narrare le mie vicende, quanto di me uno studio morale e psicologico». Delle tantissime persone incontrate, inoltre, si propose di fare una galleria di ritratti, partendo da suo padre e sua madre. Afferma, poi, esplicitamente che non intende fare “un libro politico”, né, soprattutto la difesa dei suoi comportamenti e delle decisioni da lui prese. Vi richiamò le vicende e le impressioni della vita trascorsa, insistendo soprattutto sulla sua esistenza di artista.
Vi narrò i suoi viaggi nella campagna romana, descrivendo i costumi di quelle popolazioni. Risulta, però, anche chiara la sua mentalità di politico: legato alle tradizioni piemontesi, ma molto aperto alle esigenze liberali e alla ricerca dell’unità d’Italia. Si spense a Torino nel 1866.
di Niccolò Dimivi