«Battere la mafia? Con la famiglia si può»

domenica 22 luglio 2012


Pubblichiamo l’intervista concessa da Rudolph Giuliani per il libro “Il profumo della libertà”, pubblicato dall’allora ministro della Gioventù, Giorgia Meloni per tramandare la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino alle nuove generazioni. La pubblicazione è disponibile online all’indirizzo www.ilprofumodellaliberta.it. stefano amore

«La giustizia americana ha un grosso debito con lui: ci ha molto aiutato nella lotta contro Cosa Nostra. E’ grazie a uomini come lui che siamo riusciti a infliggere delle sconfitte all’asse Palermo­New York». Così Lei ricordava Giovanni Falcone in un in­tervista, pubblicata sul quotidiano La Repubblica” del 24 maggio 1992, in cui è de­scritta tutta la sua emozione e il suo dolore nell’apprendere la notizia della strage.

Il suo rapporto con Giovanni Falcone era, evidentemente, molto profondo. Ci può raccontare come vi eravate conosciuti?
Il primo incontro tra me e Falcone credo che risalga al 1985 o al 1986 ed è avvenuto nell’ufficio dello United States Attorney. Giovanni era negli Stati Uniti con altri magi­strati italiani per avviare la collaborazione nel caso Pizza Connection e condividere le informazioni che avevamo raccolto sulla mafia. La situazione era tale che quando abbiamo iniziato le indagini per il caso Pizza Connection avevamo il problema di dover trascrivere alcune conversazioni telefoniche in dialetto siciliano. Ma non avevamo interpreti che lo sapessero fare, così siamo stati costretti a organizzare un corso per farglielo impa­rare. Proprio questo rapporto così stretto tra mafia americana e mafia siciliana ci ha fatto comprendere che per ottenere dei risultati bisognava creare una stabile collaborazione con l’autorità giudiziaria italiana. Le famiglie mafiose di New York e di Chicago lavoravano solitamente ognuna per conto proprio e solo raramente organizzavano qualche affare insieme. Ma in questo caso era diverso. I rapporti tra mafia siciliana e mafia americana erano talmente forti che non si riusciva neppure a capire chi comandava veramente. Per questa ragione è iniziata la collaborazione con i magistrati italiani e così ho incontrato per la prima volta Giovanni Falcone.

Che tipo di rapporti esistevano all’epoca tra l’autorità giudiziaria statunitense e quella italiana? Vi erano già stati episodi significativi di cooperazione per combattere la mafia o, anche sotto questo profilo, Falcone fu un precursore?
A presentarmi Falcone fu Louis Freeh, un collega, poi divenuto capo dell’Fbi, che già lavorava con i magistrati italiani. Falcone divenne presto nostro ospite abituale. C’erano sempre 5, 6 italiani nei nostri uffici, non solo magistrati, ma anche poliziotti. La polizia italiana ci aiutava ad analizzare le informazioni che avevamo acquisito, ci spie­gava il senso di certi riferimenti e noi facevamo lo stesso con loro per la parte americana. In questo modo abbiamo sviluppato, molto rapidamente, un rapporto molto stretto. Questa collaborazione si è poi ulteriormente rafforzata quando Gaetano Badalamenti venne arrestato in Spagna. C’erano richieste di estradizione da parte sia dell’Italia che degli Stati Uniti, così io e Louis Freeh, su consiglio di Giovanni Falcone, andammo in Italia, per fare un accordo che consentisse di superare i conflitti che c’erano stati in passato. Riuscimmo a concludere una convenzione con il ministero della Giustizia e con il ministero dell’Interno italiani che consentiva di far entrare Badalamenti nel programma americano di protezione testimoni (American Witness Protection Program). Per concludere questo accordo fu determinante l’aiuto dell’Ambasciatore Raab, che all’epoca godeva di un grande prestigio presso il governo italiano. E’ difficile descrivere l’intensità del rapporto che si era creato. I magistrati italiani erano sempre negli Stati Uniti, il mio collega Dick Martin, uno dei pubblici ministeri di Pizza Connection, faceva continuamente la spola con l’Italia. Non ho più visto una collaborazione così forte nel settore giudiziario.

La cooperazione giudiziaria internazionale rappresenta oggi il presupposto fondamentale per combattere una criminalità sempre meglio organizzata e coordinata. Alle organizzazioni criminali tradizionali si sono aggiunte oggi quelle terroristiche. Cosa si può fare, secondo Lei, per migliorare ancora di più la cooperazione giudiziaria e di polizia tra Stati Uniti e Europa?
Dopo l’11 Settembre la cooperazione tra l’Europa e gli Usa è molto migliorata. I servizi di intelligence oggi collaborano e condividono le informazioni anche quando le posizioni politiche dei governi non sono le stesse. In particolare, il rapporto tra Italia e Usa continua ad essere molto stretto. Naturalmente, se per contrastare il terrorismo si facesse quello che abbiamo fatto, insieme a Falcone e a Borsellino, per combattere la mafia, sarebbe tutto più facile. Bisognerebbe, cioè, lavorare fianco a fianco, nello stesso ufficio, creare un pool di persone, di tutte le nazioni, in grado non solo di veicolare le informazioni, ma di farne comprendere la portata e il senso. Spesso le informazioni ricevute vengono fraintese o sottovalutate nella loro importanza, cosa che non accadrebbe se fosse possibile parlare e confrontarsi. Nonostante il grande sforzo di collaborazione tra i servizi americani e quelli europei e gli ottimi risultati conseguiti, si potrebbe forse fare ancora di più creando apposite strut­ture che consentano di lavorare insieme. Negli Stati Uniti la creazione della Joint Terrorism Task Force (JTTF), che coordina tutte le agenzie e forze di polizia ha dato eccellenti risultati, perché consente una valutazione incrociata delle informazioni e impone a tutti di lavorare nello stesso ufficio. Riuscire a sventare un attentato, come quello di Times Square della scorsa settimana, è anche questione di fortuna, ma la fortuna aumenta con la cooperazione.

Torniamo al suo rapporto e alla sua amicizia con Falcone. Ci può raccontare qualche particolare inedito relativo al vostro rapporto? Certo. Mi ricordo di una volta che l’ho visto dalla finestra del mio ufficio, mentre camminava in Piazza San Andrea con un berretto dei New York Yankees in testa, circon­dato da alcuni colleghi. Allora sono sceso dall’ottavo piano per andargli incontro. L’ho raggiunto che era ancora in piazza, con questo cappellino, e mi è venuto spontaneo chiedergli: «Ma cosa fai con il berretto degli Yankees?» Falcone allora mi guarda e mi risponde che sta cercando di imparare le regole del baseball, aiutato da uno dei miei assistenti. Mi è venuto naturale dirgli che i miei assistenti erano dei bravissimi giuristi, che sapevano tutto della legge, ma che il baseball lo conoscevo meglio io. Così, da allora, nelle pause di lavoro lui veniva nel mio ufficio per parlare di baseball. Ricordo che una volta gli ho disegnato uno schema del gioco, con il diamante, le quattro basi e il monte di lancio, cercando di spiegargli come funzionava. Falcone faceva fatica a comprendere il concetto di foul ball, e cioè che la palla doveva entrare tra le righe del diamante e quelle del fuori campo per essere considerata a fair ball, cioè per rimanere una palla in gioco. Ma quella che a Giovanni proprio non piaceva era la regola per cui il foul viene conteggiato come strike solo fino al secondo. Dopodiché, il battitore può continuare a battere foul all’infinito, senza che questo porti alla sua eliminazione. Questa regola a Falcone proprio non piaceva, soprattutto perché, a suo parere, allungava troppo i tempi della partita. Al di là degli scherzi, ricordo un uomo che amava molto il suo paese, l’Italia, e la sua terra, la Sicilia. Quando parlava della Sicilia si emozionava e insisteva sempre su un concetto: che la Sicilia si doveva modernizzare e che alla base del suo mancato sviluppo c’era la mafia. Secondo Falcone la mafia aveva impedito non solo lo sviluppo e la modernizzazione della Sicilia, ma anche la crescita dell’Italia come nazione moderna. A suo parere solo sconfiggendo la mafia l’Italia sarebbe tornata ad essere una nazione all’avanguardia nel mondo.

Falcone è ricordato anche come un magistrato estremamente corretto. Qualche tempo fa un collega mi rammentava lo scrupolo che poneva nel formularele domande ai collaboratori di giustizia e nel trascriverne (lo faceva personalmente) le risposte. Le sue domande evitavano, sempre, suggestioni ed erano per lo più tese ad approfondire fatti o responsabilità di persone di cui il dichiarante aveva già parlato. Le dichiarazioni rese dai pentiti, Falcone ne era consapevole, debbono essere valutate con grande prudenza in quanto uno degli scopi della criminalità organizzata può essere proprio quello di fuorviare le indagini, anche per indebolire le istituzioni, minandone la credibilità. Qual è la sua opinione sui pentiti e sulla loro utilità nei processi di mafia?

La mia opinione è che i pentiti rappresentano un elemento da cui non si può prescindere per combattere efficacemente la mafia e, anche, il terrorismo. Negli Stati Uniti li chiamiamo Topi di fogna, ma aldilà del nomignolo, certamente meno gentile di quello italiano, la sostanza non cambia. Chiamare “pentiti” queste persone forse è meglio, perché può stimolare un processo di reale cambiamento, facendo percepire loro che la scelta di cambiare vita, di non uccidere più, può riconciliarli realmente con la società. Sotto il profilo psicologico, il termine “pentiti” che usate in Italia per indicare questi collaboratori è, veramente, il migliore. Perché tiene conto del fatto che gli esseri umani possono fare cose terribili, ma che tutti hanno in sé la forza di redimersi, se lo vogliono veramente. Sotto un profilo pratico, l’importanza dei pentiti è poi evidente se si riflette sul fatto che è quasi impossibile condurre con successo delle indagini su una organizza­zione segreta, come è la mafia, senza l’aiuto di qualcuno che ne faccia o ne abbia fatto parte. Per il terrorismo vale lo stesso ragionamento. Tutto il lavoro di Falcone e di Borsellino, tutto il nostro lavoro, sarebbe stato, almeno in parte, inutile, se non avessimo avuto la collaborazione di alcuni “pentiti”, che con le loro dichiarazioni ci hanno permesso di ricostruire le dinamiche dei crimini commessi dalla mafia. Riuscire a convincere queste persone a collaborare è stata la vera chiave del successo di molte delle indagini condotte in quegli anni.

Durante l’operazione chiamata “Pizza connection” si scoprì che l’eroina prodotta a Palermo veniva venduta nelle pizzerie di molte città degli Stati Uniti e che gran parte dei profitti veniva non solo reinvestito nel settore della droga, ma anche utilizzato per finanziare importanti operazioni immobiliari. Falcone attribuiva grande importanza alle indagini bancarie e patrimoniali. Lei che è stato anche Sindaco di una grande città come New York ed è noto in tutto il mondo per avere, con la Sua “tolleranza zero”, sconfitto la violenza in questa grande metropoli, potrebbe suggerire una formula efficace di “tolleranza zero” anche nei confronti dei grandi investimenti patrimoniali della mafia? Come si può impedire, una volta per tutte, che la mafia possa investire i proventi delle sue attività criminali in banche, ospedali, programmi edilizi? Come si può impedire che metta le sue mani sulle città? Negli Stati Uniti cosa si fa per combattere questo fenomeno?
Prima di tutto va fatta una precisazione. “Tolleranza zero” è il modo europeo per definire quello che facevo: non tollerare nessun tipo di crimine, anche quelli meno gravi, a cominciare dai piccoli atti di vandalismo e di danneggiamento. Poi va chiarito che non ho sconfitto la criminalità di New York, l’ho solo ridotta, in modo significativo, del 50/60 per cento. Sconfiggere la criminalità per sempre credo sia impossibile, perché il male fa parte della natura dell’uomo. Ma certamente è possibile contenerla in modo significativo ed è questo quello che ho fatto a New York.Sono poi completamente d’accordo sul fatto che le misure che incidono sugli investimenti e sui patrimoni della mafia sono molto più efficaci del carcere. Lo statuto Rico (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act) ha permesso negli Stati Uniti non solo di condannare i mafiosi, ma anche di confiscare le società in cui avevano investito i proventi dei loro crimini. Senza queste misure i procedimenti giu­diziari avrebbero prodotto solo un avvicendamento tra i vecchi capi, quelli arrestati e condannati, ed i nuovi. Si sarebbero arrestate e condannate persone, ma non sarebbe cambiato nulla. Confiscando i soldi, le società e le proprietà immobiliari della mafia abbiamo, invece, messo in ginocchio queste organizzazioni criminali. Negli Stati Uniti la mafia si era impadronita del mercato del pesce, di aziende di abbigliamento, dell’intera industria del trasporto dei rifiuti di New York. Ebbene, tutte le società e imprese su cui la mafia aveva messo le mani, le abbiamo confiscate e poi vendute. E colpendo la mafia nelle sue attività economiche ne abbiamo ridotto, in modo sensibile, l’influenza nella società. Questo modo di procedere andrebbe applicato anche nei confronti delle organizzazioni terroristiche. Se privi delle risorse economiche i terroristi, per loro sarà molto più difficile organizzare un attentato. La persona che è stata arrestata per l’attentato di Times Square non aveva i soldi per pagarsi una casa, ma ha portato negli USA 80.000 dollari. Chi glieli ha dati? Scoprire chi lo ha finanziato è il primo passo per impedire che si pos­sano organizzare altri attentati.

So che le sto per fare una domanda dolorosa. Cosa ha provato quando hasaputo delle stragi di Capaci e di Via d’Amelio? Che impatto hanno avuto quelle stragi sull’opinione pubblica e sul mondo politico statunitense?
Ne sono rimasto sconvolto. E’ veramente difficile parlare del dolore che ho provato. Avevo incontrato Falcone, per l’ultima volta, alcuni mesi prima, nel 1991 credo. Sarei dovuto andare a ritirare un premio in Sicilia e ne ero felicissimo, perché desideravo molto poter visitare la Sicilia. Ma non fu possibile. Prima venne il Console generale d’Italia a New York a consigliarmi di ricevere il premio nella sede del Consolato, poi l’Fbi mi fece sapere che il governo italiano non voleva che io andassi in Sicilia perché lo reputava troppo pericoloso. Così, alla fine, si decise che mi avrebbero premiato a Roma. Mi ricordo distintamente che, non appena in Italia, parlai di questa vicenda con Falcone, facendogli notare che se era pericoloso andare in Sicilia per me, per lui lo era dieci volte di più. «Si, ma è lì che vivo, lo sai» mi rispose, aggiungendo poi una frase del tipo: «Ma se succede, lo capisco». Forse era una sorta di fatalismo o forse era la fiducia che aveva nella sua volontà e il desiderio fortissimo di riuscire, anche a prezzo della vita, a sconfiggere per sempre il cancro della mafia. Così quando ho saputo della sua morte, di quella di Borsellino, di quelle terribili stragi, ero sconvolto, ma non posso dire che fossi veramente sorpreso. So di dire una cosa terribile, ma credo che solo lasciando l’Italia Falcone avrebbe avuto la possibilità di salvarsi. Lui aveva inferto colpi gravissimi alla mafia, ma erano rimasti in piedi i mafiosi più violenti, quelli più disperati. Negli Stati Uniti noi non abbiamo mai corso gli stessi rischi. I miei assistenti venivano minacciati, io stesso sono stato minacciato molte volte ed abbiamo sempre preso molto sul serio la possibilità di essere oggetto di attentati. Ma debbo dire, molto onestamente, che ritenevo estremamente improbabile che la mafia americana potesse decidere di uccidere uno United States Attorney, o un assistente di uno United States Attorney o un agente dell’Fbi. La mafia americana aveva ed ha delle regole. Non uccidono né giudici, né pubblici ministeri, né poliziotti, perché sanno che le conseguenze per loro sarebbero gravissime. Nel 1986, quando ero US Attorney, venne ucciso a New York il Detective Venditti, ma fu la stessa mafia a consegnarci gli assassini. La mafia siciliana aveva un approccio totalmente diverso: uccidevano giudici, uccidevano poliziotti. Potevano fare quello che volevano e lo sapevano. Ammiravo enormemente il coraggio di Falcone e di Borsellino, perché affrontavano, ogni giorno, pericoli enormi. Tutto questo per dire che non ero sorpreso quando ho saputo delle stragi. Ero sconvolto, ma non ero sorpreso.

Da quelle stragi sono trascorsi quasi vent’anni. Paolo Borsellino immaginava che la mafia sarebbe svanita come un incubo se i giovani le avessero negato il loro consenso. Il qualunquismo culturale, la crisi di valori caratteristica della nostra epoca non aiutano i giovani e sono, probabilmente, i migliori alleati della mafia e delle grandi organizzazioni criminali. Cosa si può fare, secondo Lei, per aiutare i giovani a rifiutare la mafia, il denaro facile, la violenza?
Basterebbe avere una buona famiglia, dei buoni genitori. Purtroppo il governo può contribuire all’educazione dei giovani, ma non può assicurare una madre e un padre che diano ai figli dei sani principi. Così in Sicilia la mafia si è trasmessa di generazione in generazione, anche se oggi scopriamo che in Calabria e in Campania le cose vanno anche peggio... Questo perché in Sicilia si sono investite risorse, perché ci sono stati uomini come Falcone e Borsellino che hanno dato la loro vita per consentire a quella terra di fare un passo in avanti. Per sconfiggere la criminalità organizzata, per sconfiggere le mafie, è necessaria però una strategia complessiva, fatta di molti interventi. Devi fare le indagini, devi mettere in prigione i mafiosi e confiscare i loro beni, ma devi anche diffondere la fiducia nello Stato e incoraggiare le famiglie a dare ai figli un’educazione ricca di valori. A me hanno insegnato, quando ero molto giovane, che la mafia è una cosa molto brutta per gli italiani, ma allo stesso tempo, mi hanno insegnato a non essere vittima di questa situazione. Prima che divenissi US Attorney, nel dipartimento di Giustizia non si poteva neppure pronunciare la parola mafia. Lo aveva proibito il procuratore generale Mitchell, perché gruppi di italoamericani si erano lamentati di essere “additati” dalla gente come mafiosi. La verità non era questa però. La verità era che gli italoamericani consentivano alla mafia di continuare a comandare, di compiere crimini. Gli italiani non godevano di buona fama non tanto perché la gente fosse prevenuta nei loro confronti, quanto perché non facevamo abbastanza per prendere le distanze dalla mafia


di Stefano Amore