L'orgoglio italiano nella Grande Mela

martedì 26 giugno 2012


Nella originale Little Italy a Manhattan che un tempo parlava solo italiano (anzi, parlava i dialetti di chi arrivava, anche prima che esistesse uno Stato ufficialmente chiamato Italia), oggi non abita più nessuno che sia nato nel nostro Paese. Chinatown lì a fianco si allarga ogni giorno di più, e gli italiani si sono spostati nel Queens, a Brooklyn, a Long Island, nel Bronx, nel Westchester o nel New Jersey. A Manhattan ne vivono molti, ma ormai la originale Little Italy ospita solo qualche ristorante, non tutti all’altezza, e qualche negozio di memorabilia un po’ kitsch. E poi c’è l’angolo tra la Mulberry e la Grand, dove sorge l’Italian American Museum: l’unica tra le istituzioni italiane a New York ad essere lì dove i nostri connazionali arrivavano, lavoravano, vivevano, diventavano americani, imparavano l’inglese, mandavano a casa molto di quanto guadagnavano, lasciavano ai loro figli una speranza in più per un futuro migliore. Non è a caso che il fondatore e presidente dell’Italian American Museum, Joseph V. Scelsa, abbia voluto che lì avesse sede il museo.  

Dr. Scelsa, lei è una delle più stimate e riconosciute figure della comunità italoamericana. Ha scritto saggi e pubblicazioni, è stato e tuttora siede nei board di alcune delle principali associazioni italoamericane. E’ Cavaliere della Repubblica ed ha collezionato insieme a questo molti altri riconoscimenti. Qual è la sua storia? 
Sono orgogliosamente cittadino italiano: la mia famiglia proviene dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Campania. Sento molto le mie radici italiane, e in particolare del sud. I miei nonni arrivarono da Caccamo, in provincia di Palermo, nel 1900. Io sono nato nel Bronx ed ho sempre studiato le storie dell’emigrazione e dell’integrazione culturale italiana negli Stati Uniti, che sono ancora molto poco conosciute qui in America, come pure poco conosciuta è la storia d’Italia in generale. Ho conseguito il dottorato in Sociologia ed Educazione presso la Columbia University ed ho tre lauree specialistiche in Sociologia, Studi Sociali e Counseling: la mia carriera si è svolta nell’università per più di 35 anni. Nel 1984 ebbi l’onore di essere chiamato a dirigere l’Italian American Institute della City University of New York (Cuny), che nel 1987 diventò John D. Calandra Italian American Institute: nel 1999 fui nominato rettore dell’istituto. Nel 1992 decidemmo insieme alla comunità italoamericana di intentare una causa civile contro la Cuny per discriminazione: questa causa si concluse nel 1999 ed ha rappresentato il primo successo per gli Italiani d’America nel portare avanti una azione legale collettiva in base alle leggi che regolano i diritti civili negli Stati Uniti.

Lei ha fondato ed è il presidente dell’Italian American Museum. Ci parla del museo? 
Nell’ambito del Columbus Day del 1999, organizzai la mostra The Italians of New York:  Five Centuries of Struggle and Achievement, che introdusse per la prima volta presso una rilevante istituzione culturale americana, la New York Historical Society - il primo museo nato a New York, nel 1804 - le lotte ed i risultati raggiunti dagli italoamericani. L’esposizione durò quattro mesi e fu visitata da più di centomila persone. Dopo la mostra capii che c’era un grande interesse verso questi temi, e nel 2001 diedi vita all’Italian American Museum che fu ufficialmente riconosciuto sotto l’egida del Dipartimento per l’Educazione della University of the State of New York. Il nostro obiettivo è quello di documentare i moltissimi contributi forniti dalla gente italiana e dai loro discendenti alla evoluzione della società, della cultura e dell’economia  americana dalle sue più antiche origini fino al suo rafforzamento e consolidamento attraverso filosofi, esploratori, avventurieri, imprenditori, scienziati, educatori, politici e straordinaria gente comune che ogni giorno continua a raccontare una storia di successo che prospera e si evolve nell’America di oggi. Per anni il museo è stato ospitato dalla Cuny, organizzando più di 25 mostre a New York ed alcune anche in altre parti degli Stati Uniti: nel 2008 abbiamo trovato la nostra casa definitiva acquistando tre edifici (riconosciuti nella lista degli edifici storici dalla città di New York, dallo stato di New York e dal governo Federale) nella originale Little Italy, che ospitarono la Banca Stabile. La Banca Stabile fece da punto di riferimento per tutti i moltissimi italiani che emigrarono a New York nel periodo a cavallo tra il XIX ed il XX secolo: nel cuore di Little Italy, era il posto nel quale venivano aiutati, finanziati, accolti; in cui imparavano l’inglese e si incontravano; e faceva anche da ufficio postale da e per l’Italia, una funzione fondamentale per i nostri connazionali di quell’epoca. Oggi il museo si sta ampliando, e contiamo di poter aprire nuovi spazi entro il prossimo anno: facciamo attività di promozione culturale, ospitando conferenze e mostre, un gala annuale e molto altro. 

Nel 2009, dopo il terremoto a L’Aquila, lei ha dato inizio ad una raccolta fondi che ha portato al restauro della Madonna di Pietranico, una scultura in terracotta del XV secolo danneggiata dal sisma. Dopo il terremoto in Emilia Romagna è partita una nuova raccolta di fondi. 
Subito dopo il sisma de L’Aquila mi ricordai di quanto fece il governatore Mario Cuomo in occasione del terremoto in Irpinia. Decisi quindi di iniziare immediatamente una raccolta fondi, e fummo subito motivo di interesse per i principali media americani che rilanciarono il nostro appello. Arrivarono 110.000 dollari, da molte piccole donazioni, che ci diedero ancora più la misura della solidarietà verso le popolazioni terremotate. Siamo riusciti, con l’aiuto del nostro rappresentante in Italia e lavorando insieme alle istituzioni italiane, a identificare un’opera particolarmente importante per il territorio abruzzese, la Madonna di Pietranico, che fu restaurata e poi portata nella nostra sede di New York per mostrare ai donatori il risultato del loro sforzo ed ai visitatori l’eccellenza italiana nell’arte di un tempo e nelle tecniche di restauro di oggi. La statua fu poi l’ospite d’onore delle celebrazioni per il 2 giugno tenute nel 2011 dal console italiano a New York. Dopo il terremoto in Emilia Romagna vogliamo ripetere il progetto. Per fortuna il terremoto ha fatto stavolta meno vittime, anche se anche solo una morte è una tragedia. Però ci sono stati molti danni al patrimonio culturale, e siamo certi di poter dare anche stavolta il nostro contributo.

Come è percepita l’Italia negli Usa, dal suo punto di vista? 
L’Italia è sempre sinonimo di gusto e qualità. Il cibo più popolare in America è la pizza, l’automobile più ambita è la Ferrari, come pure italiani sono i prodotti più ricercati negli altri settori importanti del made in Italy. Noi italoamericani ne siamo un po’ gli ambasciatori, perché siamo i primi consumatori e promotori dell’Italia negli Stati Uniti.  

Lei è in prima fila anche nella battaglia contro gli stereotipi che colpiscono gli italoamericani. Questo è un problema che li colpisce realmente, o si tratta solo di antipatico show business? 
È un problema molto grande, in effetti. Ed è molto difficile intervenire ora, sarebbe stato necessario farlo tempo fa. In questo noi italoamericani non siamo stati in grado di elaborare una strategia di controinformazione che ci vedesse tutti uniti, come è stata invece brava a fare la comunità afroamericana. Negli Stati Uniti sono moltissimi gli americani di origine italiana che hanno avuto grande successo, in ogni campo, e che hanno ricoperto e ricoprono incarichi di forte responsabilità. Non è ad alto livello che questa campagna di diffamazione fa danni: è a livello del ceto medio, nei posti intermedi, fra i ragazzi. Lì lo stereotipo è sempre vivo e compie molti danni, ed è ormai molto diffuso. È difficile combatterlo, però noi ci proviamo: perché è ovviamente sbagliato dipingere gli italoamericani come mafiosi, e perché anche quei programmi televisivi che danno spazio ad alcuni giovani italoamericani mostrandone un lato cafone e pretendendo di identificare con loro tutti i giovani della nostra comunità, mostrano comportamenti che se non sfociano in criminalità, certo non sembrano così lontani dall’approccio mafioso.


di Umberto Mucci