Viaggio nel pensiero di Gioberti

domenica 24 giugno 2012


È una delle personalità più rappresentative del liberalismo cattolico italiano del 1800.  Fu un grande pensatore, un vero filosofo, anche se le sue idee furono contestate da alcuni, considerate persino panteistiche. Fu anche un uomo di governo. Egli seppe far procedere insieme speculazione ed azione. Noi accenneremo solo a quei punti della sua biografia che ci aiutano ad una maggiore comprensione della sua idea religioso-politica, che era quella di far leva sulla tradizione religiosa degli italiani per raggiungere il riscatto politico e l’unificazione dell’Italia.

Nato a Torino nel 1801 e ordinato sacerdote nel 1825, fu nominato Cappellano di Corte. Animato dalle sue idee di riforme sociali e politiche, fu considerato da alcuni un mazziniano. Tuttavia non fu mai iscritto alla Giovane Italia, ma appartenne ad una delle tante “società segrete” d’ispirazione carbonara, allora esistenti. Compromesso per la sua aperta professione degli ideali liberali (aderiva al pensiero politico-religioso di De Lamennais), prima fu allontanato dal suo incarico a Corte, poi, arrestato (maggio 1833) e messo in prigione per quattro mesi; fu successivamente «posto in libertà e tradotto contemporaneamente ai confini dei Regi Stati». Inizia così il suo esilio. Dopo aver trascorso un anno a Parigi, dove maturò la sua avversione per i metodi rivoluzionari di Mazzini, si trasferì a Bruxelles dove insegnò filosofia e storia, e ove resterà fino al luglio 1845. Durante questo periodo pubblicò una diecina di opere tra cui, quelle che ci interessano da vicino, sono: “Del Primato morale e civile degli italiani” (1843) e “Prolegomeni del Primato” (1845).

È nel “Primato” che troviamo l’esposizione delle sue idee religioso-politiche. Mentre i “Prolegomeni” costituiscono un attacco acre e polemico verso chi non condivideva le sue tesi. Nel 1845 ritornò a Parigi ove continuò la sua intensissima attività editoriale, polemizzando sempre più aspramente con i suoi oppositori. “Il Primato”, in Italia, suscitò entusiasmo e procurò consensi alla causa nazionale. Sostiene Gioberti che il principio dell’unione italiana risiede nell’unità preesistente ed effettiva, concreta e ben radicata, del cattolicesimo romano. Dunque la tradizione religiosa degli italiani contiene tutte le condizioni per raggiungere il riscatto politico e l’unificazione dell’Italia. Non c’è bisogno, quindi, di moti rivoluzionari, ma l’Italia «deve soltanto riprender coscienza di se medesima». Il suo fu un programma moderato, con intenti educativi, che si oppose ai moti rivoluzionari. Egli voleva arrivare all’unità nazionale gradualmente, attraverso la federazione degli Stati allora esistenti in Italia. In questa sua visione assumono un ruolo particolare Roma e Torino, rispettivamente centro spirituale e centro militare. Scrisse testualmente: «s’egli è vero che le idee e le armi accoppiate girano il mondo, da Roma e da Torino unanimi pendono i destini d’Italia.

L’avvento dell’unità politica italiana, deve passare - secondo Gioberti - attraverso la coscienza popolare e, allo stesso tempo, facendo gravitare i Principati attorno al pontificato romano che costituisce la guarentigia sovrana dei diritti, la costituzione vivente di ciascun popolo in particolare e il pernio della loro civile e fratellevole colleganza». Il pontificato romano è la coscienza civile e perpetua d’Italia. A Roma si sarebbe trovato «l’arbitro pacifico che coordina gli interessi e risolve i dissensi in una sfera di suprema spiritualità». Ma Gioberti si spinse anche oltre l’unità d’Italia, oltre le aspirazioni risorgimentali, e intravide anche una confederazione europea. L’assunzione al pontificato di Pio IX (16 giugno 1846) sembrò realizzare l’ideale disegnato da Gioberti. Pio IX, infatti, ad un mese della sua elezione emanò un decreto di amnistia, cui seguirono una circolare per incrementare i lavori pubblici e dare così lavoro alla popolazione, un ordine sull’amministrazione della giustizia, un editto per la liberalizzazione della stampa, un Motu-proprio che istituiva il Consiglio dei Ministri, una convenzione con il re di Sardegna sul commercio reciproco tra i sudditi di ambo gli Stati. Il nome di Gioberti, in quei giorni, fu spesso associato a quello di Pio IX, cui inneggiavano con entusiasmo dappertutto, in Italia: da Roma al Piemonte, dalla Toscana a Napoli e in Sicilia. Gioberti rientrò in Piemonte nel maggio 1848. Ma il 29 aprile vi era già stata l’allocuzione di Pio IX che aveva posto dei limiti alla sua partecipazione alla causa nazionale. Gli Austriaci, intanto, sconfiggevano il Piemonte a Custoza (15 luglio 1848) e anche Carlo Alberto, dopo la successiva firma dell’armistizio, venne indicato dall’opinione pubblica italiana come un traditore. È in questi difficili momenti che Gioberti assunse le responsabilità del potere. Prima come Presidente della Camera, poi come Ministro del Governo Casati (29 luglio - 9 agosto 1848) e, infine, come presidente del Consiglio dei Ministri (13 dicembre 1848 - 19 febbraio 1849). Gioberti si sforzò di realizzare le sue idee operando sia per l’unione degli Stati della penisola, sia per l’unione di tutto il popolo, attraverso la collaborazione dei partiti politici. Per Gioberti, i partiti dovevano essere lo strumento non soltanto del dibattito parlamentare, ma anche della dialettica civile nella quale far formare lo spirito della nazione. Quindi non strumenti faziosi, di pericolosa divisione.

Avendo, però, avvicinato le sinistre, Gioberti si inimicò le destre, soprattutto piemontesi, che egli chiamava ironicamente “i municipali” perché sostenevano egoistici particolarismi. Dovette così rassegnare le dimissioni. Nominato Ministro Plenipotenziario a Parigi, si dimise anche da questo incarico (maggio 1849) e si ritirò definitivamente a vita privata, ripigliando l’esilio e guardando con alterigia quanti avevano avversato la realizzazione del suo sogno politico. In questo secondo esilio continuò a scrivere molto, fra cui Del Rinnovamento civile d’Italia (1851). Rivendicando quasi la continuità e la coerenza con il “Primato”, sconfessò le sue idee federative per tratteggiare un avvenire ad egemonia sabauda. È un’opera, il “Rinnovamento”, in cui una sobrietà vigorosa si trasforma in un’opera letterariamente pregevole. Morì improvvisamente a Parigi il 26 ottobre 1852.


di Niccolò Dimivi