Le radici del Risorgimento italiano

martedì 19 giugno 2012


C'è un amico che non mette mai piede in un museo. «Non ci posso fare nulla. Entro. Guardo e mi deprimo». Non è che sviene. Niente sindrome di Stendhal. Non gli gira la testa per l'emozione. Semplicemente si intristisce. Il bello è che di mestiere fa il giornalista culturale. Va in giro per gallerie. Si innamora di mostre a cielo aperto. «Solo che i musei mi fanno lo stesso effetto degli zoo. Quei capolavori in cattività mi ricordano i leoni spelacchiati sotto il sole. I musei sono tristi».

Non è che il mio amico abbia tutti i torti. Soprattutto in Italia c'è questa sensazione da zoo in dismissione, quest'aria di decadenza, da deserto post moderno. Solo che lui, il depresso, non conosce Marco Pizzo. Il professor Pizzo è il vice direttore del Museo Centrale del Risorgimento. Per anni quando da queste parti si parlava di garibaldini e baffoni alla Vittorio Emanuele ci si ritrovava circondati da una nuvola di polvere. Pizzo invece è un incanto. Ti fa entrare nel retrobottega del suo laboratorio di cimeli e testimonianze. Ha la barba risorgimentale e gli occhi vispi e vivi di un esploratore tra le pieghe del tempo. Ogni oggetto è una storia. Prende una sciabola da uno sgabuzzino e te la sguaina, dicendo: «Impugnala, impugnala. Questa è la lama che Garibaldi ha portato con sé da Quarto a Marsala». E se la prendi in mano un po' vengono i brividi. Sotto la scrivania fa spuntare un copricapo blu da marinaio. È quello di Nazario Sauro. Stai per metterlo in testa e poi pensi che è il cappello di un eroe, ma di un eroe morto, impiccato e scoprendo una scaramanzia assurda lo tieni in mano ma non te la senti di metterlo in testa. C'è la bara che ha ospitato il corpo di Mazzini. Ci sono monete, fazzoletti, parole, giubbe, lettere.

Tutta questa roba però si illumina solo quando Pizzo la tocca e la racconta. È così che è venuto su il progetto su "Gioventù ribelle". La mostra ospitata un anno fa dal Vittoriano sui ventenni che fecero l'impresa. Qualcuno magari può dire che tutti quei video, quelle parole che rimbombano nella sala con la voce degli attori, quella roba troppo virtuale, è troppo leggera. Si sbagliano. Non è una leggerezza superficiale. È profonda. Colpisce. È un modo per ridare un soffio di vita al passato, di conoscere. Perché poi per molti Mameli è solo un inno. Sono quelle parole un po' retoriche che parlano di elmo di Scipio e di stringiamoci a coorte. Ti vengono in mente gli azzurri che si sforzano di cantare parole imparate bene o male a memoria. Nessuno poi si ricorda che Goffredo, il genovese Goffredo Mameli, poeta romantico, bello e forse ingenuo, è morto a 21 anni mentre cercava di difendere la repubblica di Roma, colpito alla gamba da una baionetta amica, e consumato dalla cancrena. Di solito uno non ci pensa agli anni di Mameli. Come non pensa all'età degli altri. Cavour ne aveva poco più di quaranta. Quello che Pizzo sta lì a dirti è che il Risorgimento fu una rivoluzione giovane, fatta da giovani, da una classe dirigente di giovani. Pochi, magari. Ricchi, certo. Che avevano in testa un futuro e, può sembrare paradossale, ma loro per quel futuro erano disposti a morire.

È l'opposto di quello che stiamo vivendo oggi. L'Ottocento è carico di futuro molto più di questo primo scorcio di Ventunesimo secolo, di anni zero nostalgici e, lo scriviamo di nuovo, paradossalmente, senza memoria. L'Italia fatta dai giovani sta morendo dentro per la miopia e il rancore rancido dei vecchi. Non è una casualità. Il professor Pizzo lo ha fatto apposta e se la ride di questo. È un burlone, il professore. È uno che per mandare avanti i suoi progetti fa cambio merci con il primo che passa. Fa rete, come si dice. Il suo museo ideale è un mercato di idee. Con il gusto del rigore storico e l'ironia della provocazione. La Contessa di Castiglione, venduta come prostituta da Cavour a Napoleone III, con il compito di sensibilizzarlo alla causa italiana e all'occorrenza di spiarlo, ha fatto di più per la patria di tanti parlamentari piemontesi. 

"Gioventù ribelle", dopo il Vittoriano, è andata in giro per l'Italia, nella provincia e nei paesi, in posti dove non si arriva a tremila abitanti e nelle piccole patrie regionali. Il professore e i suoi amici vanno nelle scuole a raccontare l'epopea di questo manipolo di sognatori, fissati per quella strana idea chiamata Italia. Sono approdati così al "Festival delle Storie", in Valcomino, versante laziale del Parco Nazionale d'Abruzzo, tra Sora e Cassino, dal 25 agosto al 2 settembre 2012, nel palazzo Visocchi di Atina.

Pizzo si è messo in testa di utilizzare il "Festival delle Storie" anche come laboratorio per un altro grande progetto: "Radici". La mostra in questo momento è al Vittoriano, sotto l'Altare della Patria. Ma è solo un frammento di un percorso immenso. È un lavoro in corso. Funziona così. Vari centri in Italia, tra cui il "Festival delle Storie", raccolgono lettere, fotografie, oggetti, memorie, testimonianze di famiglia. Tutto questo materiale viene messo in un data base che diventa la piccola storia accanto a quella ufficiale. La storia della porta accanto. C'è anche una parte di gioco. Il professore invita ogni individuo a portare in forma digitale quattro foto della famiglia, con una breve didascalia per ogni immagine. Il nonno che parte per l'America, una partita tra cugini a calcio balilla, la festa di laurea della madre, lo zio sul trattore che da contadino si sente signore della modernità, il commerciante che apre il primo negozio di telefonini a Treviglio. Cose così. Pizzo dice che le didascalie spiegano perché uno ha scelto proprio quella foto ed è un modo per definire la propria personalità: dimmi cosa ti piace ricordare e ti dirò chi sei. «A me interessa il ricordo. È per questo che più del racconto dei protagonisti mi intriga sapere come la seconda e la terza generazione ricordano il racconto del padre o del nonno. La scommessa è vedere come si trasmette e resiste la memoria. Qualche volta diventa leggenda, altre lessico familiare, quasi sempre i particolari restano attendibili e magari si scoprono elementi essenziali che sfuggono alle versioni ufficiali. I racconti dei testimoni del tempo non sono l'unico modo per capire la storia. E poi in famiglia si dicono particolari che in pubblico non si ha il coraggio o la voglia di dire».

Come sono importanti gli oggetti. Le cose parlano. L'uomo ci lascia sopra una traccia, una storia. Pizzo va nelle scuole e chiede agli studenti di portare gli oggetti "sacri" di famiglia. Li studia. Vede le evoluzioni. Capisce cosa un uomo si porta come eredità, il testimone che passa di madre in figlia, di padre in figlio. Questa è "Radici". Qualcosa del tipo: la storia siamo noi (nessuno si senta offeso). Il professor Marco Pizzo, viaggiatore del tempo, questa estate se ne andrà in America, in una comunità di quaccheri. «Sono dei formidabili narratori di storie».


di Vittorio Macioce e Michele di Lollo