L'epopea di Bob Marley diventa un film

sabato 16 giugno 2012


«The stone you refused now is the cornerstone of a new building». La pietra che hai scartato adesso è testata d'angolo di un nuovo edificio. In questa citazione biblica ripresa da una canzone poco nota di Bob Marley si racchiude tutta l'incredibile epopea di un ex reietto, familiare e di quartiere, che salvò la Giamaica dalla guerra civile almeno due volte, che per questo subì un attentato, che fece conoscere la musica reggae a tutto il mondo, che aiuto i poveri e andò a fare concerti in Africa in maniera idealistica (senza sapere che le sue canzoni sarebbero state sfruttate per propaganda da dittatori come Mugabe nello Zimbabwe) e che infine morì di cancro a soli 36 anni per un'infezione a un alluce mal curata, e poi degenerata a causa delle peculiarità genetiche dell'essere stato un mulatto in una terra dove sono accettati tutt'ora solo i bianchi o i neri. 

Il bellissimo documentario Marley presentato a Cannes dalla Lucky Red ci racconta in quasi due ore e mezzo tutte queste cose e molte altre ancora, fondandosi sulla stessa biografia scritta dalla ex moglie Rita. In Italia resterà sala un solo giorno, il 26 giugno, in 100 copie distribuite in altrettante città italiane, e poi arriverà a ottobre in dvd. Una pellicola in cui si nota l'assenza di interviste lunghe di Marley e anche la carenza di filmati che non siano quelli dei concerti o di alcune partite di calcio in Giamaica. Ci sono anche le foto inedite di un Bob triste e smagrito senza più dreadlocks, ma sempre con il cappello rasta in testa, in Germania a farsi la chemio insieme ai suoi amici che lo accompagnano ovunque, come Neville Bunny Livingstone e il suo harem ampiamente tollerato dalla moglie che comprendeva anche una ex miss Giamaica e miss Mondo. Per questo noi orfani dall'inizio degli anni '80 (11 maggio 1981 la data della morte in Florida) del grande Bob non abbiamo potuto fare altro che inventarci una leggenda. Anzi The legend, come si chiama uno degli album postumi più venduti. Un mito che comprendeva sciocchezze come quella che Bob si fumasse mezzo chilo di ganja al giorno, subito riprese dai Giovanardi di tutto il mondo per giustificare il suo tumore e quindi la giustezza del proibizionismo anche sulle droghe leggere. Niente di tutto ciò era vero, Marley, che veniva perquisito con la band in tutti gli aeroporti del mondo quando andava in tourneè perché preceduto dalla immeritata fama di importatore di marjuana all'ingrosso, mentre lui fumava solo in maniera "spirituale" e faceva una vita da salutista e vegetariano, era in realtà un apostolo della religione Rastafariana: una setta ebraica simile ai testimoni di Geova in salsa etiopica, persone convinte che il Messia fosse il Negus Hailè Selassiè primo, quello che i soldati italiani del colonialismo irridevano canticchiando che «da piccolo faceva l'aviatore e per far partir il velivolo pisciava nel motore».

Bob combatteva per l'emancipazione di un popolo che ancora alla fine degli anni '70 era diviso tra il terzomondismo castrista e il mito del ritorno in Africa, e comunque ripudiava la violenza dei ghetti, tanto da organizzare a spese proprie un concerto bipartisan per riunire i leader dei due partiti giamaicani dell'epoca, i cui "hooligans" in strada si fronteggiavano con il machete e le mitragliatrici, e  che lui arrivò a fare abbracciare sul palcoscenico mentre saltellava cantando loro intorno le proprie canzoni di utopia pacifista. 

Oggi Bob è l'idolo degli aspiranti sballati in erba, e ieri lo era di quelli che oggi non si sballano più o quasi. Il documentario ripercorre con fedeltà quasi filologica le origini, il rapporto con questo padre inglese venuto dal mare come quello di Lucio Dalla, ma non morto benché sempre assente dalla sua vita. È intervistato anche il fratellastro bianco di Bob, che peraltro gli assomiglia parecchio, e la storia che viene fuori è quella di un ragazzo timido rifiutato sia dai bianchi (il padre e la famiglia che oggi ne parla con accenti commossi) sia dai neri, che al fine riesce a imporre il proprio carisma canoro, spirituale e giamaicano, attraverso le proprie canzoni.

Bob una volta disse a un giornalista: «Io non ho pregiudizi contro me stesso. Mio padre era bianco e mia madre era nera. Mi chiamano mezza-casta, o qualcosa del genere. Ma io non parteggio per nessuno, né per l'uomo bianco né per l'uomo nero. Io sto dalla parte di Dio, colui che mi ha creato e che ha fatto in modo che io venissi generato sia dal nero che dal bianco». Fu una delle confessioni più vere sulla propria identità culturale.

Dal lato mediatico, per quasi mezzo secolo, Bob Marley - il musicista, il rivoluzionario, la leggenda - ha influenzato popolazioni diverse in tutto il mondo con una forza che resta ineguagliata. In Giappone fece un concerto per pochi intimi nel 1978, 5mila persone in tutto, di cui non parlarono mai i giornali del rock. Tutti quanti, anche se in gran parte non parlavano inglese, cantarono con lui a memoria decine di canzoni in coro. 

La morte di Bob Marley nel maggio del 1981 non solo ha lasciato un vuoto immenso in quello che forse è il genere di musica moderna più spirituale e allo stesso tempo più accessibile, il reggae, ma, a testimonianza del grande carisma esercitato da questa star, ha anche dato inizio ad un aumento postumo senza precedenti del numero dei suoi fan.  

La persistenza della notorietà di Bob Marley non è paragonabile a quella di un semplice fenomeno 

di musica pop. Per capirlo basta considerare il successo della compilation The Legend, uno dei 17 album nella storia della musica ad aver superato la soglia dei 10 milioni di copie vendute, continuando a vendere circa 250mila copie l'anno, oltre ad essere, secondo le stime della  rivista Billboard, al secondo posto nella storia degli album rimasti più a lungo nelle classifiche. Eppure all'inizio fu tutt'altro che profeta in patria: tra il 1962 e il 1973, non c'è neanche  un minuscolo spezzone filmato, e solo una manciata di fotografie. Il problema è che, nonostante The Wailers, il gruppo formato da Bob con Peter Tosh e Neville "Bunny" Livingston, all'inizio della loro carriera avesse già contemporaneamente 5 singoli in cima alle classifiche top 10 della Giamaica e fosse abbastanza famoso, a quell'epoca l'interesse e gli strumenti tecnici necessari per documentare le performances semplicemente non c'erano. «Questo dimostra cosa fosse la Giamaica di allora», racconta il regista Kevin Macdonald, che insieme alla famiglia Marley ha reso possibile il documentario, «ma anche quale fosse l'importanza della musica giamaicana a quei tempi. Nessuno ha filmato i The Wailers, e nessuno, per molti anni, li ha presi sul serio». 

A proposito dei The Wailers, sapete perché vennero chiamati così? L'idea fu sempre di Bob: si lamentavano sempre, e all'epoca quella gente che poi divenne ricca e fece tanta beneficenza per il popolo giamaicano, andava spesso a letto senza avere mangiato (e la frase che divenne famosa era: «mi bevo un buon bicchiere d'acqua e me ne vado a dormire»). Da qui il nome "the Wailers", i piagnoni.


di Dimitri Buffa