Il gigante buono della memoria

domenica 3 giugno 2012


Il numero tatuato sulla sua pelle, indelebile e portato con la dignità di chi ha vinto, è 158556. Ad Auschwitz furono deportati 1022 ebrei romani e lui fu l'unico minorenne a fare ritorno dall'esperienza più aberrante che la mente umana potrebbe mai partorire. Insieme a lui altri 16 tornarono a casa, con quel numero stampato sulla pelle e nella mente. Come se fosse un monito, un orrendo ricordo indelebile. Ma anche una missione. La missione di mantenere la memoria della crudeltà, della profonda cattiveria e indecenza morale a cui può arrivare la mente umana.  Quel numero doveva essere un segno perpetuo di ignomia nella mente di chi lo aveva immaginato, ma per Sabatino Finzi, quel numero era semplicemente una parte della sua vita, la parte forse più difficile da far convivere con il ritorno alla normalità. Se n'è andato il 24 maggio scorso. Era nato a Roma l'8 gennaio del 1927. Il 16 ottobre del 1943 venne deportato.

Chi scrive lo ha conosciuto perché ha avuto il privilegio di crescere nello stesso palazzo dove viveva lui. Grande, buono, sensibile, il volto scavato dalla vita e dalla memoria. Da piccolo mi faceva paura quell'uomo così grande, tanto che prendere l'ascensore con lui mi metteva non poca agitazione. Solo dopo un bel po' di tempo capii che "il signor Finzi" era buono, non mi avrebbe mai fatto del male e che, anzi, in caso di necessità mi avrebbe potuto anche aiutare.

Forse quella bontà me l'ha fatta capire anche sua moglie. Le brillano gli occhi quando parla del marito. Un amore che il tempo non ha scalfito, parole di ammirazione ed affetto che si rinnovano ogni volta che vengono ripetute. Solo venerdì ho saputo che il signor Finzi non c'è più. Il pensiero è andato subito a quei volti che hanno fatto parte della mia vita nell'infanzia e nell'adolescenza: la moglie, i figli, i nipoti, i cognati, le cognate e tutte le persone che lo andavano a trovare. C'erano giorni in cui il portone era il crocevia di un flusso ininterrotto di parenti e amici che lo andavano a trovare, anche solo per salutarlo. Un uomo carismatico, forte, ma al tempo stesso, non credo di sbagliare a dirlo, dolce nell'animo.

La sua storia l'ha raccontata tante volte, in tante scuole e a tanti ragazzi. Ma non diceva sempre tutto. Spesso non riteneva che alcune parti cruente, troppo cruente dei suoi ricordi, dovessero essere spiegate ai bambini e ai ragazzi delle scuole. Forse perché l'aberrazione dei campi di lavoro e di sterminio non hanno bisogno di dovizia di quei particolari che non aggiungerebbero nulla alla già agghiacciante verità raccontata.

Non lo fermava nulla. Quando stava male e non usciva di casa per un po' di giorni, la sicurezza di tutti era quella di vederlo camminare sul marciapiede dopo qualche giorno. Come se nulla fosse successo. Il suo respiro pesante e il suo sguardo attento non lo abbandonavano mai. Neanche quando dovette cedere all'utilizzo del bastone per camminare più comodamente. Testardo. Così appariva il suo modo di porsi, felicemente testardo di vivere appieno la vita. Malgrado le tante tragedie che lo hanno segnato anche dopo la fine della guerra. Riesce difficile pensare a lui separato dalla moglie. Nei ricordi, almeno i miei, sono sempre insieme, escono dal portone insieme, entrano in macchina insieme. Insieme parlano col portiere e insieme li salutavo la mattina nell'androne del palazzo.

A leggere le sue dichiarazioni nelle interviste che rilasciò in passato, si riesce a tratteggiare una personalità ben definita.  «Come riuscì a sopravvivere?», gli chiesero. «Dovevo sembrare più grande. Perché avevo visto che i bambini li ammazzavano tutti. Non lavoravano, e alle SS non servivano. Li portavano fuori dai blocchi, e ta-ta-ta. Li mitragliavano. Io ero già un giovanetto. Allora ho detto di avere più anni, perché in quel modo potevo rendermi utile. Così sono sopravvissuto. Ho sempre avuto un sesto senso».

E ancora, sul foglietto lasciato al Muro del Pianto di Gerusalemme disse: «Sono andato e come tutti ho infilato un bigliettino. Ci ho scritto sopra: "Hitler, non ce l'hai fatta a farmi fuori. Sabatino Finzi è ancora qui, come mio figlio Giorgio e come mio nipote"».

Ecco, questo era, e rimane nella mente di tutti, Sabatino Finzi. Un uomo forte, uno che ce l'ha fatta e che mai ha dimenticato quello che successe. Lo ha raccontato, lo ha trasmesso, lo ha piantato come un albero di indelebile memoria nelle menti di tutti i ragazzi che lo hanno ascoltato mentre raccontava la sua vita nelle scuole. Quando doveva andare dal Presidente della Repubblica per ricevere le onoreficienze, ci andava come se dovesse andare a parlare in una scuola. Poco importava se stava salendo al Quirinale. Perché non c'è nulla che possa alleviare il ricordo della barbarie umana applicata durante la Seconda guerra mondiale dai nazisti. L'unica cosa importante era, ed è, quella di non lasciare mai che il tempo sovrasti la memoria, e con essa anche il ricordo di quanto gli uomini possano umiliare i loro simili. Perché il ricordo più vivo sia quello di come gli uomini umiliati si siano rialzati. Più forti di prima.


di Francesco Di Majo