domenica 3 giugno 2012
L'11 Settembre. Il terremoto a L'Aquila. Lo tsunami in Giappone. Immani tragedie, tra le maggiori catastrofi degli ultimi anni, le cui immagini vivono ancora nella memoria collettiva, e che, insieme ad altri analoghi eventi, fanno da sfondo a "La società insicura" (2012, Aliberti Editore), ultima fatica di Carlo Bordoni, sociologo, scrittore, giornalista che, nella sua opera - arricchita da una conversazione inedita con Zygmunt Bauman - analizza il passaggio dalla società "solida" alla società "liquida". Un mondo nel quale, come recita il sottotitolo, non si può che convivere con la paura.
Come nasce l'idea di questo libro?
L'idea è sorta dall'osservazione della realtà e
della cronaca quotidiana, caratterizzate da una sequenza
irrefrenabile di calamità: alluvioni, terremoti, tsunami,
accompagnati anche da catastrofi legate al singolo individuo. Non
esiste più un clima di sicurezza sul quale contare, non esistono
più valori cui appigliarsi: l'individuo tende a sostituire la paura
con l'indifferenza, che proviene dall'adattamento a una mutata
condizione esistenziale. Ho cercato di approfondire questo aspetto,
con l'ausilio dei testi di Zygmunt Bauman.
Lei sostiene che l'insicurezza è ormai entrata a far
parte integrante della nostra vita. Come è avvenuto questo
fenomeno, quando ha iniziato a verificarsi?
È un fenomeno legato in maniera specifica all'ultimo
periodo della storia contemporanea, il post-moderno, l'inizio di
quella che Bauman ha definito "la società liquida": non ci sono più
i grandi valori di un tempo a cui aggrapparsi, ed il comportamento
umano si è modificato di conseguenza. Si vive una sorta di
irresponsabilità collettiva, dove persino lo Stato, con la sua
opera, non riesce più a garantire la sicurezza. C'è una sicurezza
formale, l'adempimento di regole e norme, ma non effettiva. Non ci
sono controlli preventivi, che permettano di evitare le catastrofi,
si corre ai ripari quando è troppo tardi: a questo, purtroppo, ci
siamo dovuti abituare. Paradossalmente, ai tempi della guerra,
gli anni più terribili affrontati dall'umanità, c'era la speranza
che il brutto periodo potesse finire e che le cose rientrassero
presto nella normalità. A distanza di oltre sessant'anni, ci siamo
resi conto che l'insicurezza non è temporanea, ma durerà sempre, e
con essa si deve convivere.
Le società organizzate, i governi, hanno fallito
nell'obiettivo di garantire la sicurezza?
Senza dubbio, poiché continuano a ragionare con un metodo
superato e con logiche obsolete, che funzionavano nel passato, ma
che ora vanno cambiate, adeguate alla realtà. Abbiamo raggiunto una
conoscenza tecnologica e scientifica così vasta che ci permette di
fare terribili danni senza porvi rimedio, se non troppo tardi. Non
riusciamo a prevedere, né tantomeno a prevenire, le catastrofi, si
fa troppo poco prima e si agisce solo a cose avvenute, salvo poi
commettere nuovi errori, come ad esempio costruire e ricostruire
nei luoghi più pericolosi, sulle rive di un fiume, sul mare, o alle
pendici di un vulcano, come le case abusive sul Vesuvio che nessuno
ha il coraggio di abbattere. Questo accade perché tendiamo a
cancellare il male, il ricordo delle tragedie, così la vita può
continuare: una falsa speranza verso il nostro futuro. È
sempre troppo tardi, una gabbia dalla quale non riusciamo più a
uscire, e non ci resta che sperare che i terremoti e le altre
disgrazie non si verifichino nell'arco della nostra vita.
Che ruolo ha avuto l'evoluzione tecnologica - Internet,
cellulari, social network - nella trasformazione della sicurezza
della società?
È un problema davvero grande, del quale ancora si
sottovalutano le prospettive. La tecnologia ha un ruolo
straordinario, perché apre immense possibilità grazie alle
evoluzioni più raffinate, e al tempo stesso crea enormi problemi
sul fronte della sicurezza. Penso ai volatili elettronici
utilizzati per raccogliere dati - per vagliare i quali servirà poi
un'infinità di persone, data l'impossibilità di decifrarli in tempo
reale - che causano un'immensa esposizione pubblica del privato,
dalla quale non sarà facile tornare indietro. I mezzi di
controspionaggio degli stati, per difendersi da eventuali attacchi
esterni, possono anche essere strumenti per il controllo dei
cittadini. Si era iniziato con le intercettazioni telefoniche, oggi
qualsiasi nostra azione su Internet, sui social network, lascia una
traccia: non riusciamo più a fare alcunché senza pensare che
qualcuno possa vederci, ascoltarci, registrarci. La privacy non
esiste più, è diventata una chimera.
Per Robert Castel stiamo vivendo nella società più
sicura della storia dell'uomo. Bauman sembra indicare il contrario.
Ritiene che questa sia la società più insicura di sempre?
Leibniz una volta disse che l'uomo della sua epoca viveva
nel migliore dei mondi possibili. Questa speranza ottimistica a
volte ci accompagna, lo stesso Castel lo scrisse in un periodo
piuttosto lontano, per poi mutare la sua posizione in un'opera
successiva. In trent'anni molto è cambiato: la società di
adesso è apparentemente più sicura di quella passata, possiamo
conoscere i rischi cui andiamo incontro. Oggi per esempio sappiamo
prevedere l'arrivo dei maremoti, mentre nell'Ottocento ciò era
impossibile. Questo ci fa pensare di essere più sicuri di una
volta, grazie a migliori conoscenze mediche e
scientifiche.
In realtà, le cose sono diverse. In primis perché non sempre la tecnologia funziona nel modo desiderato, perché dietro di essa vi sono gli uomini, con annessi problemi di imperizia, dolo, volontà. Purtroppo, gran parte dell'insicurezza è dovuta all'incapacità degli uomini di essere all'altezza della situazione. L'uomo si è deresponsabilizzato, e la sua incuria contribuisce al verificarsi di eventi drammatici che minacciano la sicurezza individuale. In occasione di ogni catastrofe scatta la cosiddetta "macchina della solidarietà". Lei, tuttavia sostiene che la mancanza di sicurezza abbia causato una "crisi di solidarietà".
Il problema è legato alla partecipazione all'evento: la solidarietà scatta, con varie iniziative, quando la calamità non ci riguarda. C'è il terremoto in Giappone e siamo tutti pronti a donare un euro con il telefono cellulare, però l'evento non ci tocca. La mancanza di solidarietà si verifica purtroppo quando la tragedia ci coinvolge: ognuno pensa per sé, tenta di salvare sé stesso e non gli altri, come preso dal panico, una reazione irrazionale che deriva da radici ataviche, lontane nel tempo.
Il tipo di società attuale, individualizzata, dove ognuno pensa per sé tentando di salvarsi all'interno di un caos in cui regnano paura sociale e paura istituzionale, porta al rifiorire di antiche irrazionalità individuali.
Basti pensare al caso più banale: ogni giorno, alla guida, di fronte ad altri automobilisti, al primo problema scatta il desiderio di superare, sopraffare il prossimo, con aggressività. Sono esempi di inciviltà, di immaturità, presenti tutti i giorni, in ogni settore. I casi di solidarietà fanno piacere, e fanno notizia, perché in controtendenza.
Un ruolo importante è assunto, nella maggiore
insicurezza, dalla crisi dello stato moderno e dalla fine delle
ideologie?
È la fine di un tipo di storia. Si registrano grandi
cambiamenti, stiamo vivendo un periodo con forti segnali che
indicano che qualcosa non funziona più, il vecchio sistema è in
crisi. Tuttavia, nonostante i presagi, non riusciamo a capire dove
tutto ciò sfocerà, non c'è un oggetto prestabilito nel nostro
futuro. Il cambiamento potrà verificarsi in un senso o nell'altro a
seconda di come agiamo, non c'è un percorso già predisposto, lo
costruiamo giorno per giorno sulla base dell'incertezza e dei
segnali che percepiamo.
Sono oltre quarant'anni che si sente parlare di fine delle ideologie, mancanza di punti profondi: l'uomo non può più vivere sganciato da valori, servono appigli forti su cui costruire le proprie certezze. Molte volte l'uomo se le inventa, si creano certezze e su questo si instaura un lavoro positivo per tutti. Compito del sociologo è studiare i fenomeni e segnalare l'esistenza di queste possibilità, mettere in guardia dagli eventuali rischi. Questo rientra nelle mie facoltà: mi piacerebbe poter prevedere cosa ci riserva il futuro al riguardo. Ma per quello, più che un sociologo, servirebbe un chiaroveggente.
di Cristiano Bosco