giovedì 10 maggio 2012
Young Adult, ossia giovani adulti. La categoria anagrafica che
sembra regolare buona parte dell'industria letteraria degli ultimi
anni, ossia i giovani tra i 18 e i 24 anni, indicativamente. Quelli
di Twilight, ma anche quelli di Hunger Games, la trilogia di
Suzanne Collins che sta dominando le classifiche letterarie del
globo. E della quale, Hollywood non si lascia scappare il
potenziale: ecco nelle nostre sale, un mese e poco più dopo quelle
americane, l'omonimo film diretto da Gary Ross. Un prodotto che
racconta di un futuro prossimo in cui gli abitanti dei distretti
che hanno sostituito gli States donano come tributo allo stato
centrale - dall'emblematico nome di Panem - i loro figli, per farli
partecipare a un mortale reality game in diretta nazionale e
obbligatoria.
I riferimenti e le citazioni si sprecano, da Battle Royale a
L'implacabile con Schwarzenegger, dal Signore delle mosche a 15
Million Merits, splendido telefilm del trittico inglese Black
Mirror (cercatelo e inseguitelo in capo al mondo). Ma quello che
più sorprende e incuriosisce del film di Ross (che si è ritirato
dal seguito perché, nonostante il grande successo, non gli hanno
aumentato il cachet) è la riflessione sul meccanismo della fama,
sugli ingranaggi del reality show e sulle sue esplicite
implicazioni politiche. Tutta la prima parte, ossia prima che
l'azione si sposti nell'arena, di un film sbalestrato dal punto di
vista cinematografico, ma per nulla innocuo o corrivo, è un'analisi
a suo modo acuta su come si costruisca e si muova il consenso
nell'epoca del televoto, degli sponsor, della continua trasmissione
televisiva, dove l'unica forma di finzione accettata è ormai quella
che si veste di realtà, l'unica ribellione è il non guardare. E il
film lo fa attraverso notazioni intelligenti, caricature e
personaggi, come quello dello stilista Lenny Kravitz.
Ancora più interessante però è la coincidenza per cui Hunger Games
arrivi come sorta di pietra tombale sul reality show come lo
conosciamo, chiudendo un percorso parallelo tra cinema e tv che ha
segnato gli anni '00: se il primo decennio del nuovo secolo è stato
quello dell'esplosione degli spettacoli e dei giochi della realtà,
dal Grande fratello all'Isola dei famosi, il cinema ha percorso
questa tendenza fianco a fianco, anzi l'ha anticipata con film in
un certo senso seminali come Il divo della porta accanto di
Poulette e The Truman Show di Weir, arrivando a My Little Eye di
Evans e Live! di Guttentag. Titoli che hanno raccontato il declino
di un format, di un genere che in 10 anni ha esaurito il suo
respiro se mai ne ha avuto uno: vero elemento nodale è, più che il
deterioramento dei meccanismi televisivi insiti in ognuna delle
trasmissioni (messe in onde irregolari, regolamenti cambiati dal
giorno alla notte per esigenze spettacolari, mancanza di rispetto
per il pubblico che paga il televoto), l'emorragia inarrestabile di
ascolti passati da picchi di 7, 8, anche 10 milioni, fino ai
nemmeno 3 o 4 dell'ultima stagione.
Cosa è successo nel frattempo? Noia, stanchezza? Molto
probabile, ma anche il cambio di scopo, di obiettivi e di basi
teoriche su cui questi programmi hanno costruito il loro successo.
La prima edizione del Grande fratello, quella della gatta morta
Marina e del compianto Taricone, si basavano, come il format di
partenza, da un presupposto "antropologico": cosa accade se chiudi
10 persone per 100 giorni in un unico ambiente?
La curiosità, ma anche il brivido ontologico dell'essere in onda
24 ore al giorno, 7 giorni su 7, ha permesso allo show di divenire
proverbiale anche più del romanzo di Orwell (1984) a cui si deve
l'idea stessa del "Grande fratello". Di pari passo, L'isola dei
famosi apre la variante vippistica del format, che più che alla
società del controllo guarda alla società dello spettacolo di
Debord, con in più l'aggiunta del sadismo di vedere il disfacimento
di qualcuno che un tempo era famoso divenire cibo per le zanzare,
da morti di fama a morti di fame. Entrambi questi programmi, presi
a emblemi dei rispettivi filoni (con quello vip più frequentato,
sintomo del provincialismo dei network e del pubblico italiani), di
anno in anno perdono spirito, interesse verso cosa si sta
raccontando - perché ogni programma, anche se reality, è una
narrazione - per riversarlo sul chi si sta raccontando.
E se il Grande fratello diventa un corollario sensazionalistico
dell'orrore umano di Maria De Filippi, con protagonisti sempre più
"da trono" e storielle sentimentali prossime alla soap, l'Isola
segue le vicende d'attualità del belpaese, sbatte il mostro in
prima pagina, tra veline in odor di bunga bunga e vittime della
macchina mediatica del fango. Ma di Uomini e donne o Porta a porta
ce n'è già uno, e il pubblico di doppioni pare non sapere che
farsene. Altresì curioso è il ruolo dell'Italia, ultimo baluardo di
questo genere che è stato sostituito in quasi tutto il mondo dai
talent show in cui non devi stare in un posto, ma fare qualcosa,
possibilmente bene, che sia cantare, ballare o cucinare.
L'Italia fa pensare che i due ex-colossi della sua tv possano
chiudere solo dopo anni dalla loro fine nel resto del mondo, come
se il pubblico fosse più pigro e assuefatto che altrove, come se le
novità della real tv, e di un canale di culto come Real Time,
impieghino più tempo a giungere all'occhio e orecchio dell'italico
spettatore. E non è un caso che il primo film italiano per il
grande pubblico su questo tema arrivi solo nel 2012: Reality di
Matteo Garrone, che sarà l'unico italiano in concorso a Cannes.
Storia di un pescivendolo che si fa risucchiare dalle luci di un
simil-Grande fratello e finisce per non capire più cos'è la realtà:
Garrone è uno dei maggiori registi contemporanei e siamo sicuri che
il suo film non si limiterà alla messa in dubbio del sistema della
notorietà e della costruzione della verità mediatica. Ma fa pensare
il ritardo con cui questo tema cruciale della cultura nostrana sia
arrivato tra le mani del nostro cinema. Nuovo segnale di un sistema
artistico e culturale che fatica a rielaborare gli spunti, anche
frivoli, della realtà e che ci sta provando solo da un anno a
questa parte. Facendosi superare anche dal disimpegno dei giovani
adulti in un film come Hunger Games.
di Emanuele Rauco