Perché parliamo ancora di Anna Frank

giovedì 3 maggio 2012


Che cosa ha fatto Anna Frank alla nuova generazione di scrittori ebrei neworkesi? Perché nel 2012 la più conosciuta e citata delle vittime della Shoah torna prepotentemente alla ribalta? Più di una coincidenza, sembra quasi un'ossessione. Sono passati settant'anni da quel 12 giugno 1942, quando, per il suo compleanno,  Anna Frank  ricevette il quadernino a quadretti bianco e rosso, sul quale avrebbe subito iniziato a scrivere il famoso Diario. Eppure il suo personaggio non è mai stato tanto vivo. E non solo come lettura obbligata in ogni scuola del mondo occidentale. Anna Frank è viva e vegeta nella letteratura. Anche in quella contemporanea. A distanza di poche settimane, infatti, sono usciti negli Stati Uniti due libri che, in maniera diversa, fanno riferimento alla giovane autrice del diario che ogni adolescente, volente o nolente, legge almeno una volta nella vita. Si tratta di What we talk about when we talk about Anne Frank di Nathan Englander e Hope: A tragedy di Shalom Auslander. Due libri diversissimi, ma con una simile ispirazione. 

Tirar giù dallo scaffale il tema dell'Olocausto è un riflesso condizionato per molti giovani scrittori americani, soprattutto se ebrei e per di più newyorkesi. Utilizzare Anna Frank poi è ancora più naturale. Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, il suo diario ha rappresentato la memoria della persecuzione degli ebrei per eccellenza. È stato il documento più vivo e facilmente accessibile per qualsiasi tipo di pubblico. Indipendentemente dall'età, dalla nazionalità o dal grado di istruzione. E tale rimane tuttora. Non c'è da stupirsi che l'appeal di Anna Frank abbia superato indenne i decenni. L'efficacia narrativa del Diario e il coinvolgimento della storia la rendono universale e praticamente insostituibile. Il nascondiglio nel vecchio edificio sul Canale Prinsengracht, la porta d'ingresso nascosta dietro una libreria girevole, i pensieri di una ragazzina normale che vive un'esperienza assurdamente tragica, la sua terribile fine proprio quando la guerra sta per terminare e le peripezie del quadernino che le sopravvive. Neanche la più fervida fantasia di un romanziere avrebbe potuto fare di meglio. 

Il diario fu pubblicato in Olanda nel 1947, ma fu con la traduzione e pubblicazione in lingua inglese nel 1952 che raggiunse un pubblico enorme. L'adattamento teatrale del 1955 e il film del 1959 fecero il resto, rendendo l'autrice immortale. Non importa se quelle trasposizioni finirono - come spesso ha fatto notare la critica - per trasformarla nel simbolo universale della vittima innocente. Una teenagers quasi americana, vittima del Male assoluto. Mettendo persino un po' in secondo piano il contesto reale: quella di una ragazzina ebrea uccisa dai nazisti. Un dato è innegabile: nel bene e nel male la storia di Anna Frank rappresenta ormai da più di 50 anni il primo vero impatto - emotivo prima ancora che storico - che gli studenti americani ed europei hanno con la storia dell'Olocausto. 

Ed è proprio come simbolo che gli scrittori di oggi la tirano in ballo. Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank è la nuova raccolta di racconti che uscirà in autunno in Italia per i tipi di Einaudi. L'autore, Nathan Englander, è stato per anni considerato uno degli "enfant prodige" della letteratura giovane newyorkese. Con questo libro torna alla forma che gli riesce meglio: il racconto. E cerca di riacciuffare il successo dell'esordio di Per alleviare insopportabili impulsi. Per farlo, sin dal titolo, gioca due assi, due pezzi grossi della storia e della letteratura americana: Anna Frank e Raymond Carver. La prima come sineddoche dell'Olocausto, il secondo come fantasma del minimalismo. Anche se il modo di scrivere di Englander non ricorda affatto quello di Carver, il racconto che dà il nome alla raccolta, replica lo schema di uno dei più famosi titoli carveriani: Di cosa parliamo quando parliamo d'amore. La scena è più o meno la stessa: due coppie americane che chiacchierano attorno al tavolo da pranzo. Della vita e dell'amore in un caso, di ebraismo e Olocausto nell'altro. Le due coppie di Englander sono infatti entrambe di religione ebraica, ma l'una ortodossa (vive in Israele e si trova negli Stati Uniti in visita alla famiglia) l'altra laica (vive in Florida, non frequenta il tempio, ma si sente profondamente legata alla cultura ebraica). Le due visioni della religione vengono a confronto tra un bicchiere e uno spinello e le lingue si sciolgono. Le coppie finiscono per fare un gioco un po' macabro che una delle due donne faceva da ragazza con la famiglia. Immaginare chi tra gli amici cristiani li nasconderebbe e chi invece li denuncerebbe in una futura eventuale nuova Shoah. Con un finale a sorpresa quando le coppie arrivano a giocare "il gioco di Anna Frank" su se stesse. 

Englander usa Anna Frank come simbolo. Per intendere l'intera questione della persecuzione degli ebrei, della Shoah. Shalom Auslander compie invece un percorso diverso. Anche la sua Anna è un simbolo: di una storia che ha superato la cronaca e la tragedia personale di una ragazzina trasformandola nell'immutabile emblema della vittima. Nel suo nuovo romanzo Speranza: una tragedia, l'autore del Lamento del prepuzio immagina che Anna Frank sia sopravvissuta all'Olocausto. Usando lo stesso schema scelto da Philip Roth in The Ghost Writer alla fine degli anni 70. L'Anna Frank di Auslander, come quella di Roth, è scampata ai nazisti e vive in America. Ma mentre l'Anna di Roth vive sotto falso nome, mimetizzata tra la gente di New York, l'Anna di Auslander vive nascosta. In particolare abita nel solaio di una casa di campagna e tenta di scrivere il suo nuovo romanzo per il quale però non riesce a trovare l'ispirazione. Se ne accorge il nuovo inquilino che se la ritrova al piano di sopra e che ne deve sopportare l'isteria bisbetica, le manie di grandezza e il continuo ticchettare della macchina da scrivere. L'Anna sopravvissuta di Auslander è una caricatura, esilarante e politicamente scorretta. Ma nessuno può pensare che l'intento sia quello di oltraggiarne la memoria. L'Anna che vive in solaio ha ben chiaro il suo ruolo nel mondo. E lo descrive con lucidità parlando con il protagonista del libro: «Sono la ragazza morta. Sono Miss Olocausto, 1945. Il mio premio è una corona di spine e l'eterno ruolo di vittima per antonomasia. Gesù era ebreo, ma io sono il Gesù degli ebrei». Il fatto di descriverla come una vecchietta vanagloriosa non vuol dire non voler bene al suo personaggio. Anzi sono quei tic a renderla speciale. Il bello per l'autore è proprio quello: immaginare che sia sopravvissuta, che sia invecchiata, con tutti i difetti di una donna normale con un destino eccezionale. Restituendole così una normalità che la storia le ha invece negato, trasformandola in simbolo.


di Cristina Missiroli